Anna Lombroso per il Simplicissimus

“I banchi a rotelle esistono da dieci anni e cambiano il modo di fare didattica. Li abbiamo presi perché servono sia per affrontare l’emergenza, sia perché sono un patrimonio strutturale che resterà per le future generazioni”, parola di Azzolina affidata spericolatamente a Google per i posteri, che conferma la massima di Flaiano: dev’esserci qualcuno che continua a spostare la soglia del ridicolo.

Non so se l’avete notato, ma il ridicolo è ed è sempre stato un effetto che si percepisce a posteriori.

A guardare un cinegiornale Luce chiunque si interroga su come sia stato possibile che si adunassero masse oceaniche a osannare quel rozzo imbonitore, bevendosi la sua retorica da quattro soldi, che sognassero le visioni di grandezza che propinava da quel balcone, che si compiacessero per le sue performance grottesche in veste di volta in volta di spigolatore, muratore per la grandezza dell’Italia, picconatore per far posto alla modernità. O che milioni di tedeschi ben prima della minaccia, dell’intimidazione, del terrore si consegnassero a quell’ometto dalla voce stridula, si facessero sedurre dalle sue mossette da isterico, non ridessero delle sue divise da operetta.

Anni dopo e per anni milioni di italiani hanno votato per le chimere di un venditore porta a porta, col parrucchino di moquette, il fondotinta che colava come l’hennè del Craxi dei suoi ultimi comizi, ridevano delle sue barzellette trite e ritrite, si beavano della sua filosofia da cumenda “lavoro, guadagno, spendo, pretendo”. Si sono perfino preoccupati quando, colpito da un attentatore che brandiva un duomo in miniatura, mostrò le ferite come meriti acquisiti sul campo. E gioivano per e con lui quando a suon di sottintesi da caserma o da bar lasciava intuire i successi delle sue campagne a pagamento sotto le lenzuola.

Non è proprio vero che una risata possieda la potenza di seppellire tiranni e despoti. E’ vero invece che di solito ci si accorge di quell’aspetto risibile e patetico, umano e dunque sorprendente in chi si atteggia da superuomo, solo quando rotola giù la testa da busto marmoreo, quando il condottiero viene disarcionato e cade nel fango sporcandosi li beli braghi bianchi della divisa imperiale.

Perfino adesso che godiamo di quella onnipotenza virtuale che ci permette di vederli rendersi ridicoli in diretta, di ascoltarne le baggianate h24, di approfittare dell’eterna memoria di Google che non dimentica e non perdona, dimostriamo una inquietante tolleranza, una imperdonabile indulgenza nei confronti di chi ci sfrutta, ci toglie libertà e diritti, ci deruba, ci inganna, ci autocensuriamo come se fosse maleducato, o peggio rischioso, non prenderli sul serio immaginandoli seduti sul water, ritoccarsi con la crema da scarpe la chioma e la barba autorevole, sistemare la soletta nelle scarpe per parere più alti.

Eppure siamo consapevoli che a noi non viene perdonato nulla, che non c’è reciprocità soprattutto di questi tempi quando i padri spirituali delle sette pentecostali di Confindustria, della Borsa, dell’Ue e dell’industria farmaceutica ci impongono la penitenza per farci scontare i loro stessi peccati.

Adesso che dal primo lockdown sono stati spesi oltre 120 miliardi, ma i problemi del sistema sanitario, della sicurezza nei posti di lavoro, del trasporto pubblico, della scuola, dei ristori arbitrari, dei musei chiusi e i centri commerciali aperti, degli esercizi al dettaglio falliti mentre Amazon prospera, sono irrisolti, mentre il popolino puerile deve, compunto e devoto, stare a sentire i pistolotti sul Natale denso di spiritualità del pretonzolo di Palazzo Chigi che starebbe bene al posto di De Sica curato ciociaro nel celebre cinepanettone.

Si vede che si è restii a rendere sghignazzo per offesa, sberleffo per umiliazione ai potenti in vita e vigenti. Si dirà che è per paura, perché si è soggetti a ricatti concreti o morali. Di questi tempi poi è probabile che come un veleno serpeggi il timore accuratamente nutrito che ai ridicoli del momento si sostituiscano ridicoli più tremendamente macchiettistici già provati o dei quali si deve temere la prova per via dell’adesione generalizzata che viene data al partito del meno peggio, del male minore che sottovaluta che sempre di Male si tratta.

Eppure se proprio vogliamo riservare scherno, dileggio, derisione a qualcuno dovremmo ragionevolmente dedicarli a chi dopo aver riempito i social della satira faidate con oggetto lo Zaia che denuncia le scorpacciate di topi vivi dei cinesi, ha pensato bene di aver riso abbastanza e lo ha rivotato, permettendogli di farsi delle sonore sghignazzate sulla insipienza degli elettori veneti.

 E come non temere il plebiscito che si aspetta il ricandidato Sala del quale verrà prudentemente rimossa l’immaginetta votiva in t-shirt con lo slogan #milanononsiferma, quando si fa ritrarre mentre prende lo spritz e condivide un video commissionato da 100 brand della ristorazione che esalta i “ritmi impensabili” della capitale morale.

Pensate che seguito continua a avere il presidente Zingaretti, augusto demolitore della sanitò pubblica della sua regione, che mogio mogio deve dichiarare un Covid asintomatico, dopo l’apericena con figuranti giovano del Pd sui Navigli.

E volete scommettere che ha ancora delle chance il successore del celeste governatore, altra figurina, immortale quella perché viene ancora interpellato sui grandi temi, del catalogo dei grandi cicisbei del Ridicolo, immortale questo perché è al suo posto invece di essere sbattuto fuori e commissariato con ignominia, quel Fontana che ha suscitato ilarità più della sua imitazione quando si mette in isolamento in diretta Facebook dopo aver annunciato la positività di una sua collaboratrice, infilandosi a rovescio la mascherina.

Per non parlare del concorso di attori impegnati nella comunicazione a corrente alternata:  “Siamo prontissimi” (Presidente del Consiglio ) “Non possiamo presentarci come il lazzaretto d’Europa” (Presidente del Consiglio), “Andrà tutto bene”  (sempre lui), e poi via con lo stato di eccezione necessario e doveroso, con i Servizi Segreti, la cui delega è nelle mani di Conte  che come in un film di Mel Brooks aiutano a secretare, declassare a scenario e poi sbianchettare la data di un dossier declassato a ‘scenario’ mentre invece il frontespizio riporta il titolo “Piano Nazionale Anticovid”, rimasto sempre lo stesso per anni anche dopo che Formigoni aveva dichiarato essere inadeguato nel 2006; o con il no alle mascherine non ancora approntate dalla Fca, diventate irrinunciabili a prodotto confezionato, con la proibizione a effettuare autopsie retrocesse a esercitazioni da necrofili, con l’anatema lanciato contro cure rivelatesi efficaci, ma malviste per scarso ritorno economico e dunque osteggiate dai santoni in libro paga delle case farmaceutiche.

Una definizione di umorismo nero dice che si tratta di un genere narrativo che suscita ilarità pur raccontando di  eventi o argomenti generalmente considerati molto seri o addirittura tabù, come la guerra, la morte, la violenza, la religione, la malattia, la sessualità, la diversità culturale, l’omicidio e così via. 

E ci siamo dentro di certo nell’intermittenza di adesso non si può, tranquilli adesso si può, no, non si può più per colpa vostra, anche se ve l’avevamo permesso.

Ci siamo dentro nel riconoscimento, in qualità di unica patologia della quale è concesso morire del Covid19, mentre ci lasciano crepare di tutte le altre sottovalutate, trascurate, non curate. Ci siamo dentro nell’affidamento apotropaico lettura ai santini: i virologi, gli epidemiologi, i veterinari, ai cornetti contro il malocchio: le mascherine, alle liturgie: bollettini, conta dei morti, statistiche.

Ci siamo dentro eccome quando rivendichiamo lo status di resistenti per aver cantato Bella Ciao e Azzurro durante il lockdown tra una serie e l’altra di Netflix, quando vogliamo l’onorificenza di Cavalieri del Lavoro per esserci prestati al cottimo creativo dello smartworking permesso dall’esposizione al virus di milioni di lavoratori di serie B, che producono, anche armi peraltro, recano viveri con Glovo, Justeat e Easycoop, forniscono corrente elettrica per stare su Facebook a denunciare nel tribunale sociale i trasgressori.

Verrebbe da dire che sarebbe una bella e cruda sceneggiatura based on a true story e venata di sarcasmo nei toni del nero, la vicenda di una impresa statale che viene data per quattro soldi a una dinastia criminale che avvelena, vessa e martirizza dipendenti e una intera  città, che poi quando l’ha vampirizzata scappa impunita come impuniti e immuni sono i successivi aspiranti all’acquisizione desiderata per eliminare la concorrenza, gli stessi che piazzano in veste di killer per la soluzione finale una kapò feroce.

E che così approfittando dell’emergenza sanitaria, che in quel posto si aggiunge ai fattori di morte già presenti, prestano il destro a un governo che fa assumere debiti, colpe, delitti a noi cittadini investendo lo Stato del ruolo di elemosiniere, affidando la liquidazione nella sua forma più ignava al manager più discusso e discutibile di questi tempi, quell’Arcuri dai banchi a rotelle, del brand delle mascherina, delle app fallimentari,  quel bel tomo davvero che immagina l’industrializzazione come l’occasione per investire a fondo perduto i quattrini pubblici in modo da dare ossigeno alle multinazionali, qualcosa che suona come una lugubre presa in giro dei morti di Taranto, di quelli dell’epidemia e pure dei vivi derubati e espropriati.

È vero, non c’è niente di comico, se non li seppelliamo né sotto il fango delle loro responsabilità e nemmeno sotto una risata, per la quale ci vorrebbe proprio il Molière della  Prècieusese ridicules che racconta di due provinciali che arrivano a Parigi, ma va bene anche Roma, per infilarsi e accreditarsi nella mondanità esclusiva dell’aristocrazia, ma va bene anche la politica.

Vi ricordano qualcuno? È che loro a differenza delle macchiette del progressismo, dei resti della banda degli onesti, delle e sagome bislacche che l’antifascismo senza resistenza identifica come il Male assoluto, fanno un figura meschina.

Ma allora non risparmiamoli, se è vero che il ridicolo può uccidere più della spada.