Anna Lombroso per il Simplicissimus

«Polemos (la guerra) è padre di tutte le cose, di tutti i re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi».

Da due anni assistiamo alla demolizione del pensiero, della ragione e della filosofia, accettabile, quest’ultima, solo quando asseconda tendenze, mode culturali e  discipline più sopportabili per menti che hanno rinunciato a capacità cognitive e critiche, all’espressione del dubbio e all’esercizio della curiosità.

Però si direbbe che l’oligarchia incaricata di mantenere il dominio assoluto abbia rispolverato il Bignami del liceo per trarre qualche spunto operativo da Eraclito e dai suoi adepti, riferimento irrinunciabile, in questo caso, per consolidare l’edificio di valori e principi della distruzione creativa cui stanno dedicandosi e per imprimere una accelerazione violenta alle disuguaglianze che potrebbe promuoverli a dei che si ergono sulle rovine.

In italiano si sa, polemos, la guerra, è  sostantivo femminile e per compensazione ci è stato concesso che sia femminile la pace, in modo da contribuire a una narrazione largamente retorica che ormai da secoli ha indotto a far credere che la violenza, la sopraffazione, lo sfruttamento rispondano a comandi di carattere genetico prima che antropologico e culturale, che la “missione” e il ruolo  della donna la mettano al riparo dalle aberrazioni della condizione umana, che la civilizzazione non sa contrastare e contenere, finendo sempre per lasciare prevalere la legge del più forte.

È talmente vero che una delle colpe che si imputavano al femminismo era l’impiego di una esuberanza dialettica che le faceva “sputare su Hegel”, dismettere gli stilemi gentili e gregari per richiamare alla lotta per il riscatto.  In realtà lo scandalo era suscitato dalla preoccupazione che anche loro come tutti coloro che si battono per il riconoscimento identitario e dei diritti pur nelle differenze, facessero proselitismo, venissero imitate e legittimassero con la loro battaglia quella guerra che da sempre viene osteggiata, demonizzata, criminalizzata e punita, quella di classe, imprescindibile e trasversale.

Sono passati gli anni, il movimento di liberazione delle donne si è lasciato addomesticare con due rinunce.

Una è quella che oggi è incarnata dal bulldozer morale, culturale e  emotivo che si è persuaso di avere la facoltà  di rompere il soffitto di cristallo grazie a una sostituzione automatica nei ruoli chiave del potere di un ceto dominante femminile, più determinato e più aggressivo, che possiederebbe la qualità non accertata di cambiare i modi e gli effetti della politica, dello sviluppo e delle relazioni, in virtù della combinazione delle  qualità di genere con i proverbiali vizi maschili, ambizione, arrivismo, spregiudicatezza, superficialità, conquistati e mutuati durante la scalata al successo  autorizzata solo alle esponenti di ceti iperdotati di rendite, posizione sociale, istinto all’affiliazione nelle gerarchie superiori.

L’altra è quella che consiste nell’abiura di un antagonismo anticapitalistico, che non basta è vero, ma che deve infiltrare pensiero e azione di riscatto di qualsiasi minoranza, e che è stato rimosso dall’agenda politica e culturale per far posto  a un “attivismo” ripiegato su rivendicazioni mainstream, doverose, certo, ma con l’effetto di  deviare dalla esigenza di ripristinare  i diritti fondamentali a torto considerati inalienabili, trascurando  che le tipologie che vanno sotto la denominazione di minoranze di genere e sessuali (quindi non solo  le donne ma la comunità LGBTQ) è differenziata al proprio interno in termini di classe, razza, religione, appartenenze comunitarie linguistiche e culturali.

E sottovalutando  che le forme di riconoscimento elargito  da istituzioni, partiti, cultura di consumo, puntano a distogliere attenzione e mobilitazione dal feroce disconoscimento dei diritti di altri soggetti e delle “minoranze nelle minoranze”, quelle cui sono stati offerti ad esempio il matrimonio o la genitorialità cui non possono accedere  però per mancanza di mezzi, come d’altra parte accade a una maggioranza impoverita e proletarizzata.

Per due anni abbiamo assistito al ripiegamento dei movimenti femministi/progressisti sulla narrazione pandemica, proprio mentre venivano obbligate alla rinuncia a tutti i diritti in cambio della salute, in particolare alle donne che subivano una pressione particolare come madri e figlie, incaricate di sostituirsi ai servizi, alla scuola, all’assistenza, isolate nel contesto domestico e in una condizione nella quale le relazioni umane e affettive erano e sono compromesse in nome dell’obbligatorietà del distanziamento sociale.

E subendo anche un torto aggiuntivo, quello di volerle persuadere che il part time obbligato, il lavoro da remoto, il cottimo  fossero un’opportunità perché combina la cura della casa e della famiglia con la possibilità di mantenere un reddito sia pure precario, ridotto e umiliante.

Per due anni le donne sono state richiamate al rispetto di un ruolo  che doveva essere confermato con l’assunzione delle responsabilità che i decisori non vogliono prendersi, obbligandole surrettiziamente a vaccinare i figli, allo scopo di non escluderli dalla società, imponendo il possesso e l’esibizione di uno strumento che discrimina i cittadini fin dall’infanzia, determinando disuguaglianze e creando gerarchie di merito e appartenenza ingiuste ed arbitrarie.

Oggi veniamo di nuovo richiamate al nuovo fronte, quello dell’esibizione retorica delle credenziali di genere a dimostrazione che il pacifismo è parte doverosa e integrante in regime di semiesclusiva  dell’equipaggiamento ideologico e politico delle donne, con tanto di immaginette votive compresa la reinterpretazione di Courbet con l’origine del mondo cui fa riscontro l’origine della guerra in forma fallica.

E vorrei anche vedere che non fosse così! Dopo che per decenni abbiamo visto quello che è scorretto ma obbligatorio definire il femminismo neoliberista, trattare l’atroce sequenza di guerre con cui l’Occidente ha insanguinato la fine del secolo breve e l’esordio di quello nuovo e che rappresenta obiettivamente il precedente e la concausa della situazione odierna, come se fosse il fisiologico, naturale effetto di una cultura patriarcale che propone come unica soluzione ai conflitti, la guerra.

E ora le vediamo bene, non una di meno, salvo rare eccezioni, armate di quella retorica di comodo che usa il pacifismo e il disarmo come una coperta corta che si tira dove riscalda e rassicura coscienze pigre, a criminalizzare il pazzo criminale e l’aggressore sanguinario, per propiziare la rimozione del passato, le analogie raccapriccianti  fra le motivazioni imputate a Putin e quelle che in decenni hanno armato gli interventi “umanitari” in Serbia cui il nostro Paese ha attivamente partecipato e le esportazioni di democrazia in Irak, Afghanistan, Siria, Libia, le operazioni di pulizia etnica in Palestina, il sostegno a despoti e golpisti sanguinari in tutta l’Africa, in America Latina.

D’altra parte sono queste le leggi dell’uso imperiale della Ragione e delle “ragioni” che non tollerano dissonanze dai dogmi manichei unitari che hanno prodotto una manualistica di pronto uso per la distinzione tra Bene e Male.

Oggi dimostrano in piazza  le Nudm “per dire no alla violenza della guerra”, e a quei miti della “virilità guerriera”  secondo la quale la pace si conserva con le armi, ma anche per rivendicare i diritti legati alla maternità, alla sessualità e alla cura dei figli e della famiglia,  confinati nel privato e nel destino naturale della donna.

Insomma siamo tornati al milione in piazza delle senonoraquando, dei militanti, maschi e femmine,  contro il puttaniere che oltraggiava le donne distraendo dal golpista che stuprava la democrazia. Accreditando la tesi che la creazione di un nemico per legittimare la guerra, la narcosi indotta al dibattito pubblico in modo da legittimare, l’applicazione di un perenne stato di emergenza per legittimare eccezioni, abusi, discriminazioni e in ultimo per esigere sacrifici a conferma dell’appartenenza gregaria a un contesto imperialistico che non possiamo permetterci se non a costo di sangue e lacrime, non fossero che l’ennesima traduzione in realtà dei principi di quella struttura portante della storia e della società che è il dominio maschile, casualmente ben riprodotto da Van der Leyen che chiama alle armi in nome dei sacri valori europei ma anche riconfermato dal volonteroso sdegno di quelle che lamentano che al tavolo delle trattative diplomatiche siedano solo maschi.

Ancora una volta c’è da sospettare che l’ardimentoso allineamento nell’esercito  dell’equidistanza nasconda l’inderogabile necessità di non prendere posizione, grazie alla finzione che si possa stare contro Putin e anche coi dovuti distinguo contro la Nato, salvando così gli empi preconcetti favorevoli, in forza alla morale mainstream, che postulano una Europa serva ma emendabile, il doveroso esproprio di sovranità di paesi e popoli, che li costringe a indebitarsi per comprare armi e finanziare campagne belliche, la ripetizione di atti di fede nei confronti di un sviluppo diseguale che esige la perdita di diritti e dignità, l’abdicazione a talenti e aspirazioni in cambio di un ordine e di una salute pubblica globali fondati sulla sopraffazione e sullo sfruttamento.

Forse anche noi dovremmo ricorrere a Eraclito quando contrappone dormienti e desti, quelle persone cioè che, andando oltre le apparenze, sanno cogliere il senso intrinseco delle cose e che oggi sono una minoranza eretica sottoposta a linciaggio ed emarginazione.

Eppure a loro è affidato il risveglio dal sonno della Ragione.