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Anna Lombroso per il Simplicissimus

Il 2019 è stato un altro anno record dei comuni sciolti per mafia dal 1991, quando venne approvata la legge che disciplina la materia.  Nel 1993 erano state 34 le municipalità commissariate,  21 nel 2017, 23 nel 2018, e  21 nel 2019: 8 in Calabria, 7 in Sicilia, 3 in Puglia, 2 in Campania e 1 in Basilicata.

E se la provincia più rappresentata è quella di Reggio Calabria con 6 Comuni, quasi il totale regionale, il dato più preoccupante è che molte delle amministrazioni sciolte sono “recidive”, al secondo o terzo provvedimento.

C’è da dire che se non sono mafiosi, i comuni italiani, piccoli o grandi, sono indebitati, già falliti o destinati alla bancarotta. Il  super-debito italiano assorbe il 7,9% della spesa corrente complessiva, cioè 63,98 miliardi su 812,6 (dati 2019), interessando da  circa trent’anni, più del 10% degli 8000 Comuni italiani., sull’orlo del tracollo economico.  E se il buco nero di Roma ammonta a 12  miliardi, in 1.883 piccoli Comuni, cioè nel 37,8% degli enti fino a 5mila abitanti, il “servizio” annuale al debito assorbe più del 12% della spesa corrente complessiva, così di ogni 100 euro di costi totali, dal personale agli acquisti, più di 18 finiscono in rate di interessi, che pesano per oltre 116 euro all’anno sulle spalle dei residenti.

Ben 592 amministrazioni locali hanno dichiarato il «dissesto finanziario», vale a dire sono state definite «incapaci di assolvere alle funzioni e ai servizi indispensabili» o non sono riusciti a far fronte ai creditori «con il ripristino dell’equilibrio di bilancio». Negli ultimi 4 anni 120 hanno  approvato una delibera di dissesto, pari a oltre l’1% complessivo, il 75% dei quali è concentrato in tre regioni, Campania, Sicilia e Calabria.

Una recente sentenza della Corte Costituzionale, che aveva già “bocciato” l’amministrazione di Napoli, per aver adottato accorgimenti illegittimi al fine di pareggiare il suo bilancio, ha messo fuori legge la norma che permetteva di pagare i debiti in 30 anni, fissando il limite a 10-20 anni:  nella lista dei condannati al flop certo, circa 130 città, tra le quali Palermo, Reggio Calabria e Messina e almeno 6 milioni di cittadini.

Nonostante questi standard di prestazione, i sindaci oggi rivendicano il riconoscimento di una maggiore autonomia, aggiungendovi la nuova declinazione in campo sanitario della massima che raccomanda di pensare globalmente e agire localmente, traendo insegnamento dalla  drammatica vicenda che ha attraversato il Paese, cito,  “per puntellare le fondamenta del sistema sanitario nazionale che verrà con le solide radici dei sindaci e delle comunità che essi rappresentano”.

Tutti d’accordo, da Sala a Gori, quello di Bergamo non si ferma, designato dal Pd come miglior sindaco, da  De Magistris a Raggi, impegnati nella repressione, coi costi che comporta in personale e misure aggiuntive ai decreti sicurezza tanto deplorati e alle ordinanze da sceriffi su panchine, muri, mense differenziate, tirate opportunamente fuori dai  cassetti di amministratori leghisti diversamente leghisti,  tramite  la polizia municipale incaricata dei nuove e originali forme di pubblico decoro tramite guanti e mascherine, per punire assembramenti ai Navigli, intemperanze di parrucchieri, impenitenti osti che non osservano le regole per il plateatico.

Vogliono più indipendenza dallo Stato centrale, meno vincoli, più libertà di gestione anche per quello che riguarda le aziende di servizio che con tutta evidenza non sono ai loro occhi sufficientemente privatizzate, anche se cercano di assolvere alla nobile missione di portare “acqua” agli azionariati e voti ai candidati.

Dà loro voce la coscienza critica della Gedi, MicroMega, che qualcuno vorrebbe chiamare MacroSega per quella inclinazione onanistica a  celebrare i fasti europei e del progressismo liberista, intervistando in contemporanea Appendino e Nardella. Non sorprendentemente uniti nel denunciare il patto di stabilità, pur sospeso a livello europeo, che ha ancora i suoi effetti sui comuni, imbrigliati da quelle norme, e dunque nel chiedere più poteri.

Appendino ricorda come Torino abbia dei soldi a bilancio per le infrastrutture “che possono essere immessi immediatamente nel circuito economico, ma abbiamo bisogno di procedure più snelle. Con le giuste risorse e i giusti poteri – un altro esempio – posso modificare il codice della strada per poter ridisegnare la mobilità sostenibile”.

E Nardella propone di “ridurre e accorpare le regioni, per dare più poteri ai comuni e far sedere i sindaci ai “tavoli che contano” in Europa”. Il sindaco del Giglio reclama la restituzione in veste di risarcimento della quota di sovranità ( in questo caso redenta e dunque moralmente accettabile a fronte del bieco sovranismo)  ceduta al governo nel pieno dell’emergenza, ma bisogna far presto perché  “  per il turismo il danno supera un miliardo di euro, considerando che in media Firenze conta 15 milioni di presenze l’anno e da mesi siamo praticamente a zero… Per quanto riguarda l’ammanco nelle casse, senza aiuti da parte dello stato dovremo registrare 180 milioni di euro di disavanzo”.

Mentre Appendino si preoccupa del riavvio “semplificato” dei cantieri: “a Torino abbiamo il progetto della seconda linea metropolitana che vale quattro miliardi ed è finanziato per un miliardo. Voglio poter mettere a sistema quelle risorse nel più breve tempo possibile. Per farlo, però, è necessario rivedere l’intero sistema degli appalti”.

Non c’è proprio speranza ormai, siamo condannati.

C’è stato un momento nel quale i casi di amministratori incaricati per elezione diretta hanno fatto sperare in una riarticolazione del potere a livello orizzontale, in modo da favorire a un tempo autonomia e partecipazione democratica al processo decisionale. Ci siamo avventurati a sperare in una Ada Colau in Laguna, lei che ha fatto della sua frase: non vogliamo finire come Venezia, il suo slogan contro la mercificazione turistica delle città, lei che ha detto che bisognava opporsi a quel “mondo capovolto” che ha consegnato la bandiera dei diritti sociali alle destre per accontentarsi del minimo sindacale delle battaglie “civili”.

Altri si sono illusi che la “pandemia” avesse benefici effetti antropologici e culturali, costringendo i ceti dirigenti a tutti i livelli a rivedere i modelli di sviluppo imperniati sullo sfruttamenti intensivo di uomini, territori, beni comuni e risorse.

C’è perfino chi ha sognato che la crisi sanitaria imponesse un ritorno all’arcadia della decrescita, sia pure obbligatoria, con le città d’arte vuote, un risparmio dei consumi dissipati, gli arcaici centri commerciali abbandonati come cattedrali megalitiche.

Macchè, il sistema di governo delle mance, delle elargizioni senza brioche, si declina a tutti i livelli. Per Torino dopo il declino dell’industrializzazione e l’eclissi del turismo accompagnato da Grandi Eventi e Operette invernali, le aspettative sono affidate al Welfare ristretto nei confini di “Torino solidale” coi buoni pasto e l’erogazione di assistenza aggiuntiva a reddito di emergenza e Bonus Inps in attesa di mettere insieme una grande coalizione per il lavoro e la casa. Per Nardella, c’è da sviluppare un’iniziativa che permetta una semplificazione per il trasferimento più rapido e diretto dei finanziamenti dall’Ue alle municipalità.

Qualsiasi sia la fidelizzazione aziendale a formazioni politiche, non viene messa in discussione l’appartenenza fatale e incrollabile all’Europa, l’atto di fede al Mes, comunque si voglia chiamarlo, ai prestiti per risanare la sanità da ripagare coi tagli alla sanità.

Non si recede dalla crescita e dall’occupazione consegnata al cemento e ai cantieri delle Grandi Opere, non si immagina un progresso che demolisca il sistema delle disuguaglianze quelle nutrite dai nuovi simulacri, le smart city, la digitalizzazione raccomandata dal guru dei telefonini in aperto conflitto d’interesse, della didattica a distanza e dello smartworking che permette l’emarginazione di lavoratori e lavoratrici dalla società, nega qualsiasi forma organizzata di difesa della sfruttamento.

La Ricostruzione consolida in tutte le declinazioni territoriali le vecchie e cattive abitudini, l’espulsione dei reietti e sommersi per favorire la costruzione di città ideali  del privilegio,  falegnami ed artigiani sostituiti dall’occupazione militare di merci a basso prezzo: mobili di Ikea o tutto a un euro  dalla Cina, tanto economici da poter essere effimeri e sostituiti, elettricisti obbligati dalle normative europee  adottate dalle grandi aziende a diventare assemblatori per loro conto di pezzi prodotti negli stessi posti e sovraccaricati di costi di certificazione, formazione, professionisti soffocati da piattaforme.

E poi uno sfrenato indebitamento che verrà ripagato con le solite procedure di socializzazione delle perdite, con l’aumento di tariffe e con tagli delle politiche sociali, con la resa entusiastica e definitiva al casinò finanziario che ha già contribuito all’indebitamento dei comuni tramite fondi, hedge, bolle e balle.

Mal Comune mezzo gaudio? No, catastrofe intera.