Paul-Cezanne-The-Card-Players-45018Come andrà a finire non so dirlo e probabilmente nessuno, nemmeno i diretti protagonisti, lo sanno, ma la vicenda greca è un vero condensato di disorientamento contemporaneo, di errori, di feticci intellettuali, di teorie economiche usate come foglia di fico per imporre progetti politici reazionari, di incapacità della politica e subalternità delle sinistre all’egemonia culturale del liberismo. Non so se tutto questo porterà a un qualche compromesso  che permetta a Syriza e a Bruxelles di salvare reciprocamente la faccia o se lo scontro farà finalmente saltare il meccanismo dell’euro: le variabili sono molte e anche ammettendo che in teoria le mosse siano sempre razionali, l’alea della vicenda è impenetrabile.

Da una parte abbiamo la realtà, quella almeno fornita ieri dall’editorialista del Financial Times Wolfgang Munchau che riassume ciò che studi e ricerche di carattere finanziario hanno stabilito: i creditori, vale a dire l’Europa e gli altri membri della troika chiedono alla Grecia un aggiustamento fiscale pari all’1,7% del pil, corrispondente a una stretta economica finanziaria e sociale che si tradurrebbe in un calo del 3,15% del pil su base annua e dunque del 12, 6% distribuito sui quattro anni del cosiddetto piano di salvataggio. Ovvero in una recessione profondissima che renderebbe ancora più irrealizzabile di oggi il pagamento ai creditori e che porterebbe il debito pubblico complessivo oltre i 200 miliardi, .

Secondo Munchau a questo punto ad Atene davvero conviene uscire dalla moneta unica ( vedi qui l’articolo, purtroppo a pagamento) facendo default rispetto al debito detenuto dalle istituzioni internazionali (Fmi, Meccanismo Europeo di Stabilità, Bce ) ma rispettando i creditori privati in maniera da tornare al più presto sui mercati in una situazione in cui il rischio Grecia non esiste più. il Paese sarebbe facilitato in questo dal fatto che il 75% della sua economia si svolge entro i proprio confini e che il restante 25% è in gran parte coperto dal turismo a cui farebbe benissimo poter operare con una moneta più debole.

Il punto però è che ancora non si capisce se l’Europa chieda l’impossibile per punire la Grecia ed educare gli atri Piigs perché non ci pensino nemmeno ad evitare la mattanza delle pensioni, dei servizi e dei salari che sono ormai la sostanza della politica continentale, oppure vuole deliberatamente spingere la Grecia fuori dell’unione monetaria semplicemente perché alcuni governi della Ue, Germania in testa, ma anche Francia e Olanda, non reggerebbero politicamente a doversi volontariamente accollare il debito  dopo anni di campagne propagandistiche sulle cicale dei Piigs, recentemente sfociate anche in venature di razzismo (vedi qui la Die Welt), ma soprattutto dopo aver fatto credere ai loro cittadini che i sacrifici economici e sociali erano necessari per la crescita e la ripresa. Diciamo che la prospettiva della Grexit è ormai apertamente contemplata, anche se si cercherà di evitarla nel limite del politicamente possibile, ma è chiaro che ormai i capitoli, euro a due velocità o al limite ritorno controllato alle valute nazionale sono aperti, vista la profonda e insormontabile stagnazione che ha aggredito il continente.

Il dilemma è reso ancor più complicato dall’enigma Syriza arrivata al potere promettendo l’inverosimile (peraltro spacciato a piene mani dalle socialdemocrazie continentali) ossia la permanenza nell’euro e la fine dell’austerità, sulla scia delle illusioni altro-europeiste. Come risultato di un’analisi superficiale e di una strategia del paradosso accade che oggi il 71% dei greci vuole rimanere nella moneta unica e una percentuale ancora maggiore vuole la fine dell’austerità, due cose completamente antitetiche: Tsipras insomma è costretto a correre nella ruota del criceto, non sapendo che fare e col timore di sbagliare e di perdere pezzi del movimento qualunque strada imbocchi.

La situazione è così aggrovigliata che probabilmente si arriverà a una situazione ponte per passare l’estate, ma che lascerà le cose tali e quali fino al redde rationem dell’autunno. A questo punto Tsipras sarà arrivato alla fine del gioco e dovrà tirare il dado: è probabilmente convinto che alla fine i creditori cederanno nel timore di perdere tutto e troveranno un accordo per salvare almeno parte del debito, anche se l’8% è in mano alla Bce, il 72%  in mano ad istituzioni pubbliche e in particolare il 60%  è di competenza dell’Esm, vale a dire che si tratta di soldi già versati da anni dai singoli stati (40 miliardi solo dall’Italia) che difficilmente li vedranno tornare indietro, Grecia o non Grecia. Certo li hanno pagati i disgraziati cittadini, ma solo per salvare le banche private francesi e tedesche che detenevano i titoli di Atene. Quindi più che economica la decisione è politica e difficilmente l’Europa rinuncerà ai propri diktat col rischio di un effetto domino. E probabile invece che per puro principio Bruxelles insista sui tagli. Cedendo a Tsipras non rimarrebbe che esporsi a una caduta del governo lasciando ad Alba dorata lo spazio per un’opa sul potere; oppure potrebbe decidere, magari grazie al sostegno russo e cinese, di abbandonare la moneta unica. In questo caso e a meno di operazioni opache dei creatori professionisti di golpe arancioni, avrebbe ancora quattro anni buoni per superare i primi due anni di instabilità e caos per arrivare alle elezioni del 2019 con l’economia in via di riassestamento e probabilmente di crescita.

Ma c’è ancora un elemento che riguarda questa prospettiva peraltro suggerita dal Financial Times: potrebbe l’Europa dei poteri finanziari e della reazione sopportare l’esempio di una Grecia che si risolleva una volta spezzate le catene monetarie e sociali imposte da Bruxelles? Di certo no: paradossalmente il caos europeo sarebbe favorito non tanto da un default della Grecia che costerebbe, tanto per fornire dei criteri di grandezza, circa il 2% della ricchezza annua prodotta dai Paesi dell’unione, quanto da un successo della Grecia liberata dalle catene monetarie e politiche. E’ soprattutto questo che si teme del grexit: la fine di una narrazione dell’economia e della società che ha aumentato enormemente le disuguaglianze, umiliato il lavoro e impoverito le popolazioni.