Anna Lombroso per il Simplicissimus

Con l’entrata in vigore dell’obbligo vaccinale per gli over 50, da oggi i lavoratori che non accetteranno di piegarsi alla vaccinazione e ai provvedimenti governativi sul lasciapassare saranno sospesi dal lavoro senza salario, come è già avvenuto per i lavoratori di sanità, scuola e di altre categorie.

In questi due anni le donne hanno pagato un prezzo superiore, professionale, morale, psicologico e non è constatazione nuova: succede sempre quando entra il crisi il valore e la pratica della “cura”, quando si rompono patti generazionali e il rapporto di fiducia tra Stato e cittadini, quando si sciolgono i legami che tengono insieme la coesione e la solidarietà e diventa sistematico l’impoverimento delle  strutture sociali e delle istituzioni volte all’assistenza e all’istruzione, e la donna è chiamata alla rinuncia di aspettative, talenti e vocazioni per svolgere un potere sostitutivo a titolo gratuito

Per questo oggi pubblico un appello, aperto al confronto e alle adesioni, di un gruppo di donne, lavoratrici dipendenti, insegnanti, professioniste, precarie, casalinghe che da due anni, prima casualmente, poi in maniera più strutturata, dialogano, si raccontano, dubitano della narrazione corrente, si interrogano e interrogano autorità che sfuggono alle proprie responsabilità e perfino all’obbligo di informare.

Fateci sentire che non siamo sole

Da due anni ci è stato imposto di rinunciare a tutti i diritti fondamentali, in cambio di quello della tutela della salute. A chiedercelo sono gli stessi che da più di dieci anni hanno demolito lo stato sociale, la sanità pubblica, il sistema della prevenzione e della cura, con il taglio lineare di strutture e  reparti, la diagnostica occupata dai centri privati, la penalizzazione delle risorse professionali, dell’assistenza a invalidi e anziani, i più esposti e vulnerabili che infatti sono stati le vittime sacrificali di una gestione irrazionale della pandemia, abbandonate alla solitudine e all’isolamento e con le case di riposo trasformate in focolai .

Da due anni il personale sanitario che osava esprimere dubbi  sulla vaccinazione con un prodotto autorizzato alla somministrazione su larga scala, senza essere stato sottoposto a tutti i test necessari, come i medici che si sono sottratti al comando: tachipirina e vigile attesa, scegliendo di esercitare la loro professione e curando con successo mediante protocolli terapeutici a domicilio,  sono stati criminalizzati, espulsi dall’Ordine, sospesi dal servizio. A condannarli sono gli stessi che da decenni permettono una obiezione di coscienza che costituisce un reato contro le donne che chiedono venga rispettata una legge dello stato.

Da due anni subiamo una pressione particolare come madri e figlie, incaricate di sostituirci ai servizi, alla scuola, all’assistenza, isolate nel contesto domestico e in una condizione nella quale le relazioni umane e affettive sono compromesse in nome dell’obbligatorietà del distanziamento sociale. E subiamo anche un torto aggiuntivo, quello di volerci persuadere che il part time obbligato, il lavoro da remoto, il cottimo  siano un’opportunità che ci rende privilegiate, perché combina la cura della casa e della famiglia con la possibilità di mantenere un reddito sia pure precario, ridotto e umiliante.

Da due anni mentre esaminano gli effetti sul nostro fisico e sul nostro morale del lockdown, delle ricadute del Covid, mentre al tempo stesso censurano i danni accertati delle vaccinazioni come quelli della perdita di reddito, di lavoro, di affetti prodotti dall’emergenza  sanitaria che si aggiungono a quella sociale in corso da un decennio, ci  chiedono in quanto donne e madri di assumerci le responsabilità che i decisori non vogliono prendersi, obbligandoci surrettiziamente a vaccinare i nostri figli, allo scopo di non escluderli dalla società, imponendoci il possesso e l’esibizione di uno strumento che discrimina i cittadini fin dall’infanzia, determinando disuguaglianze e creando gerarchie di merito e appartenenza ingiuste ed arbitrarie.

Da due anni ci ricordano che il corpo è un bene da salvaguardare a tutti i costi.

Ma noi lo sapevamo da sempre, perché il nostro corpo, ancor più di quello dei maschi è oggetto di sfruttamento, commercio, merce di scambio, macchina da riproduzione anche grazie alla nuove frontiere dell’affitto dell’utero destinate a un pubblico selezionato di benestanti illustri.

Ma noi lo sapevamo da quando possiamo essere messe su una strada per fornire prestazioni sessuali, davanti a una macchina che si inceppa e ci ammazza, scelte perché costiamo meno anche in risarcimenti.

Ma noi lo sapevamo già da quando la nostra mercificazione è stata condannata se avveniva sulle pagine delle riviste maschili, sulle passerelle delle miss, dietro le telecamere delle tv pubbliche e private, mentre erano legittimi la differenza salariale, l’abbandono lavorativo per salvare il posto dell’uomo di casa, la disuguaglianza nell’accesso alle carriere.

Ma noi lo sapevamo da quando non è stato fatto nulla per impedire che sul nostro corpo si consumassero violenze annunciate, sdoganando la paura che limita le nostre libertà come una prova di buonsenso,  che deve indurre  a indossare un vestiario appropriato, a non uscire la sera, a guardarsi dagli altri con particolare riguardo per gli stranieri, quando il pericolo è in casa, quando le nostre vite sono minacciate anche davanti a un telaio o nei campi di pomodori, in sala parto o per il consumo di droghe legali, per la trascuratezza di patologie favorita dall’impoverimento dell’assistenza e della prevenzione.

Il corpo è mio e lo gestisco io, è stato uno slogan ridicolizzato e contestato perché parlava di una libertà che il sistema economico e la cultura patriarcale osteggiavano, perché evocava la pretesa di diritti di scelta che non riguardavano solo la maternità e la sessualità, ma anche la volontà di conoscenza, l’aspettativa di realizzare le proprie vocazioni e esprimere il proprio talento.

Per troppo tempo l’abbiamo dimenticato, troppe tra noi lo hanno addomesticato per convincerci che la guerra per la liberazione e il riscatto dovesse ridursi alla guerra tra sessi e che la vincevano le donne che sostituivano i maschi nei ruoli di comando, sviluppando i loro vizi di genere, esasperando i caratteri dell’ambizione, della competitività, dell’arrivismo e della sopraffazione.

Così sono riusciti, donne e maschi appartenenti a ceti privilegiati, a farci credere che tutte fossimo abilitate a rompere il soffitto di cristallo, a afferrare i nostri destini e governarli per il raggiungimento di un successo sociale ed economico secondo valori di mercato. Mentre invece non era un diritto, ma una concessione offerta in regime di monopolio solo a quelle che potevano vantare una origine sociale, una rendita, una affiliazione a ceti “superiori”, in grado di permettere lo sviluppo di qualità e l’accesso a posti di comando, trasformando i diritti in prerogative e meriti da acquisire a pagamento.

Il corpo e la mente sono e devono restare nostri, ricordiamolo a chi accusa le donne e gli uomini che si ribellano all’esproprio della libertà di scelta, alla rinuncia all’arbitrio, all’imposizione di misure che emarginano chi non si adegua e chi osa esprimere critica e dubbio di individualismo e egoismo.

Difendere la propria autodeterminazione è l’unico modo per tutelare quella degli altri, dalle ingerenze, dal controllo sulle proprie esistenze che viene esercitato dalla culla al letto di morte che si vuole dolorosa e umiliante, dallo sfruttamento che ci dicono sia fatale per garantire uno sviluppo che ha prodotto i danni che stiamo scontando, dalla regressione a capitale umano condannato a reprimere desideri, talento, capacità per diventare simile a robot che eseguono sempre gli stessi gesti, premendo lo stesso tasto e compiendo la stessa fatica alienante.

Per anni abbiamo prodotto valori nuovi di indipendenza, dignità, libertà, per anni le donne hanno compiuto un loro percorso di riflessione e conoscenza, trainando generosamente il pensiero comune verso orizzonti più luminosi, per noi stesse e per la comunità. Da anni alcune si sono ripiegate per stanchezza, altre si sono arrese al pregiudizio secondo il quale non ci sarebbe alternativa allo status quo, altre hanno aderito all’ideologia dominante per raccoglierne i frutti professionali e politici.

Eppure quel patrimonio è ancora là, usiamolo, non torniamo a quella normalità che ci ha portato qui, con le sue disuguaglianze, le sue minacce, il suo sfruttamento. Osiamo il nostro possibile.