Anna Lombroso per il Simplicissimus

«È la città alla quale ispirarsi. Milano ha una grande responsabilità: deve prendere per mano il resto del Paese e portarlo fuori da una situazione di difficoltà, ma che vede già tutti i segnali per poter fare il grande salto. Milano oggi è la città di riferimento dell’Italia nel mondo».

Certo che ha un vero talento il presidente del consiglio, per incarnare il peggior strapaese, per asseverare i più vieti stereotipi, per dare concretezza alle più stolte proiezioni da cumenda, quelli del “lavoro, guadagno, spendo, pretendo”,  rassicurandoli che comunque Milan l’è sempre un gran Milan, malgrado le infiltrazioni mafiose, le esondazioni del Seveso, gli scheletri dell’Expo, quelli di cartapesta e quelli nell’armadio della corruzione e del malaffare. Una macchietta di premier non poteva non contribuire alla propaganda leggendaria quanto vetusta di un’altra macchietta: quella  della capitale dell’onesta operosità in  un Paese senza produzioni,  che, grazie alle sue riforme, ha seppellito il lavoro, intossicato dai veleni della criminalità in doppiopetto, del clientelismo, del malgoverno.

L’ometto che vuol farsi bauscia, è con tutta evidenza posseduto da ingombranti figure paterne – “costola” com’è di Craxi e Berlusconi:  vorrebbe ricreare il clima eccitante e effervescente,  magari aromatizzato da Turatello, della Milano da bere, capace di convertire la maggioranza silenziosa in festose comparse della realtà parallela di Mediaset,  nelle quali la vita era quella delle fiction con Boldi, la giustizia si amministrava in Forum, il trend dei consumi era calcolato dall’on. Zanicchi in Ok, il prezzo è giusto, per ridurre tutto a miserabile imitazione dell’esistenza, perfino l’orrenda epica di scandali e icone bancarie criminali, da Calvi a Sindona, se oggi  il gotha finanziario cui guarda la sempreviva cerchia di nani, ballerine e olgettine, abita in Banca Etruria.

Come al solito è generoso di annunci, promesse e bugie, da buon ganassa di adozione, invece pidocchioso nei fatti, poderosamente descritti in 13 agili paginette di programma all’orizzonte del 2020, se dei 2 miliardi e mezzo previsti si vedranno solo i circa 150 milioni accantonati prudentemente da Pisapia e che dovrebbero finanziare gli interventi sul Seveso.

È che le smargiassate di Milano risentono già del new look del premier, che da qualche giorno cerca di contenere l’indole irresistibile alle fanfaronate, per dare un’impressione di oculata lungimiranza, con la scoperta dei ragionevoli tempi lunghi che dovrebbero connotare lo statista.  Intanto davanti al vermut in Galleria i milanesi, profughi compresi – stipati in condizioni disumane per via dell’effetto sorpresa di un’invasione imprevedibile, come ha dichiarato il sindaco impreparato a fronteggiare qualsiasi cosa: mafia nelle cordate dell’Expo, terreni del grande evento che nessuno vuole, subdole dichiarazioni dei redditi-   potranno  godersi i frutti, sia pure lenti, dei patti di sangue tra comune e privati, in via di “individuazione”, chiamati a finanziare il prolungamento della M5 fino a Monza e della M1 fino a Baggio e Muggiano e della realizzazione di una linea di metrotramvia, ma anche delle politiche di investimento sulle periferie che, per miseri 174 milioni, anche quelli solo sulla carta, dovrebbero garantire l’equa distribuzione degli  alloggi sfitti, per non dire delle misure per l’assistenza sanitaria e il Welfare, se, proprio a questo proposito, «Il Governo, ha dichiarato, assume Milano come modello di riferimento», anche guardando alla tradizione di accoglienza degli immigrati interni, insomma i terùn .

Ciapa …. Che poi le Olimpiadi non le vuole il suo sindaco, preferito perfino al suo clone a Firenze, ma possiede già la ricetta per cosa fare, prima, durante e dopo un Grande Evento, visto che il flop dell’Expo viene rivendicato come modello ripetibile, e ci credo, come format per la festosa integrazione della criminalità organizzata nel comparto delle costruzioni, come laboratorio per il consumo di suolo, come arena creativa per esuberanti e visionarie destinazioni d’uso dopo il disastro, quando quinte e scenari soggetti a frettolosi camouflage e ridotti a tetre rovine dovrebbero risorgere sotto forma di Zes (zone economiche speciali), di start up, di poli tecnologici, insomma di quella paccottiglia, anche quella di cartapesta, che dovrebbe mascherare il malinconico declino di una Paese senza produzione, senza lavoro, senza innovazione, senza futuro.

È che un immaginario ipertrofico, che non sa nemmeno sognare se non la manutenzione e prosecuzione di ambizioni, privilegi, rendite, appannaggi, proietta solo il film delle virtù del Mercato, bonario eufemismo usato al posto di capitalismo, dello “stile di vita” che permette a pochi a danno dei più, ­di godere di beni, di allinearsi a tendenze commercialmente promettenti, di approfittare del diritto a consumare, che per noi è un obbligo morale anche se ci hanno tolto tutto, come della libertà dal bisogno, dal quale sono affrancati per nascita, fidelizzazione,  appartenenza.

È la loro divinità il Mercato ed è giusto che abbia la sua santa sede, dalla quale celebrare i suoi riti pagani, dettare i suoi spietati  imperativi morali, lanciare i suoi anatemi contro chi si sottrae alla sua egemonia, grazie alla mobilitazione internazionale dei suoi sacerdoti, all’ombra dell’impassibile, bela Madunina, che, beata lei, brillet de luntan.