Anna Lombroso per il Simplicissimus
Domenica con un sole che aveva squarciato la nebbia, ce n’era di gente all’Arsenale, qualcuno arrivato sul “sandolo”, vogando in pie con portamento fiero, tanti giovani e anziani con cartelli, bandiere, striscioni a ricordare che quello che era «un popoloso recinto di tutte quelle arti e di tutti que’ studi che costituiscono l’essenziale della marina […] molte sono queste arti ne’ vari lor rami, ma presi nella lor sorgente, l’architettura delle navi», ossia «le arti le più principali che cospirano a stabilire una marina perfetta […] buon corpo di nave e ben lavorato, àncore bene costrutte, buoni cavi, albori e vele ben disposte», è stato e deve continuare ad essere un bene inalienabile dei veneziani.
La manifestazione era stata indetta dal Forum Futuro Arsenale, per protesta contro la “restituzione” alla Marina militare e alla Biennale, che li avevano lasciati andare in rovina senza nemmeno la pietas che si dovrebbe riservare a un monumento di archeologia industriale, di quasi 2 ettari di edifici storici che lo Stato aveva restituito al Comune nel 2012, con l’auspicio che si realizzasse una progetto di valorizzazione e di recupero funzionale, sociale e culturale.
Il risultato era stato quello consueto e risaputo. Il Comune non ha mai presentato un’ipotesi di rigenerazione e gestione di quel bene, secondo una prassi che si ripropone stancamente, quella che registra un primo entusiasmo con l’invito pressante rivolto a archistar, urbanisti di tutto il mondo, sponsor e mecenati a lanciare concorsi di idee.
Cui sono seguite l’abituale eclissi favorevole all’abbandono e alla trascuratezza e le inevitabili conseguenze prodotte dalla mancanza di manutenzione, dall’indifferenza per un patrimonio collettivo, e tutte mirate a “realizzare” uno stato di emergenza incontrastabile, che si possa tradurre in misure eccezionali, commissariamenti, aggiramento di regole e procedure di legge.
E che, in questo caso, ha convinto la Giunta di Brugnaro della non indilazionabile necessità di mettere l’area nelle mani di “gente pratica”, grazie alla sottoscrizione di un protocollo d’intesa che consegna l’antico manufatto ai ministeri della Difesa e della Cultura, soggetti competenti, come quelli, Ministero delle Infrastrutture e Consorzio Venezia Nuova, cui è stata affidata in concessione quasi la metà dell’ala nord, affinché potessero disporne senza relazionarsi con gli enti pubblici e risparmiandosi il molesto controllo dal basso.
Già mi sento alitare sul collo quelli che in anni e anni si sono convinti che l’antidoto al malaffare dell’incuria sia l’affaccendarsi di soggetti variamente privati, tesi che negli anni ha incontrato il favore di contesse e intellettuali, storici a libro paga del mecenatismo degli sponsor, operatori culturali che hanno trovato l’America facendo pervenire oltreoceano guglie del Duomo e precari dipinti a corredo di eventi speciali, assessori con la valigetta piena dei dépliant del Very Bello in cerca di emiri, industriali e banchieri pronti a prodigarsi magari ospitando tesori negletti e dimenticati nei sotterranei dei musei, grazie al progressivo indebolimento di quella fondamentale componente dello stato sociale che dovrebbe tutelare la cultura, l’arte, il paesaggio.
Il loro mantra si ripete, monotono e rinunciatario, da anni: è preferibile delegare, concedere, dare in comodato, affidare, ad altri che possono, i beni che non sappiamo mantenere anche se il prezzo è che a goderne sia solo una cerchia ristretta di utenti eccellenti, che si distinguono dalla plebe che si accalca a farsi un selfie davanti a Caravaggio nella location della recente serie tv, a conferma che il censo ha come effetto naturale una superiore percezione dei valori tattili e dell’estetica negata alle file con la guida che bercia nell’altoparlante, a chi non è meritevole di visite esclusive durante cene e convention di prestigiose multinazionali.
E invece no, non è così, e anche nel caso in oggetto non ci vuole molto a prevedere le destinazioni d’uso che potrebbero sortire dall’immaginazione dei due dicasteri e dei due ministri che interpretano con protervia la determinazione a sviluppare concordi le “vocazioni” del Bel Paese.
E, cioè, farne una servitù militare della Nato e un parco tematico con tanto di hotel diffuso, solo apparentemente incompatibili, perché in realtà confermano la volontà di far retrocedere l’Italia a relais per ricchi cosmopoliti, accuditi dagli abitanti in livrea e costumi regionali per intrattenerli, o in divisa e in servizio permanente ai poligoni di tiro e alle aree militarizzate, come succede quando con la sovranità si rinuncia a ogni diritto di proprietà.
Anche se è un’attività molto osteggiata vale invece la pena di servirsi della storia per fare un paragone tra l’oggi e il passato.
Dopo secoli nei quali Venezia fu una superpotenza, anche grazie alla perizia nell’invenzione e alla lungimiranza nell’applicazione di tecniche innovative, che riguardavano i disegni degli scafi, i materiali e i sistemi di velatura e poi l’introduzione della bussola, delle carte marittime, venne il tempo del declino, attribuito da molti ai cambiamenti di rotta e tra questi la circumnavigazione dell’Africa e la circolazione di nuove mercanzie, che via via decretarono la perdita di potenza della Serenissima nel Mediterraneo.
In verità a minare il prestigio e l’egemonia indiscussa di Venezia fu certamente l’incapacità di tenere il passo con i progressi tecnici, ma a determinarla fu un processo che ricorda quello che ha investito il nostro Paese retrocesso da grande potenza a trascurabile provincia dell’impero occidentale in declino, disposta a farsi definitivamente colonizzare grazie alla rinuncia di sovranità, poteri, diritti di proprietà sui suoi beni, dei suoi know-how, della sua reputazione e della sua memoria.
Anche Venezia dissipò le sue risorse, il legname ad esempio delle foreste e dei boschi che aveva costituito al sua riserva apparentemente illimitata per la costruzione navale, disperse la sua cultura “industriale”, esaurì la sua volontà di conoscenza e di sapere che l’aveva fatta diventare la meta di studiosi, filosofi, artisti accolti con l’intento di farli contribuire alla grandezza della Repubblica, dove mercanti, artigiani, marinai volevano che i loro figli apprendessero non solo le arti e i mestieri, ma i rudimenti delle discipline scientifiche e di quelle umanistiche.
A poco a poco una accidiosa indolenza finì per convincere della bontà della delega di uffici e mansioni, a cominciare dagli alti comandi navali, a personale esterno mercenario che veniva scelto sulla base di un reclutamento politico-clientelare, incrementando la conflittualità nel governo della città tra fazioni, la pratica della corruzione estesa a quelle grandi opere di manutenzione che avevano protetto quell’agglomerato di nidi di uccelli acquatici, come lo definisce Mommsen, dal mare, dall’erosione, dal bradisismo, dalla potenza travolgente delle onde, e a quegli interventi di gestione lungimirante dei fiumi che tenevano vivo il sistema lagunare, la sua fauna e le sue acque.
Il declino di Venezia sancì quello dell’Arsenale, simbolo allegorico della sua vocazione militare e di conquista, dove per secoli venivano prodotte e lavorate le polveri da sparo, messe a punto nuove armi, dai mortai a tiro curvo, alle gigantesche bombarde per gli assedi, alle colubrine, ai falconi e falconetti impiegati in battaglia. Un’industria bellica che si collocò ai primi posti in Europa per quasi due secoli e che conviveva con quella navale e cantieristica, per la costruzione di imbarcazioni da guerra che formavano la Grande Armata, e commerciali, queste ultime particolarmente sofisticate che collegavano la meccanica alla costruzione, per reggere la concorrenza con i paesi che disponevano di siti adatti a produrre scafi in grado di affrontare le tratte oceaniche.
L’Arsenale è ben altro, è un monumento alla memoria del lavoro e potrebbe ridiventare quel «popoloso recinto di tutte quelle arti e di tutti que’ studi che costituiscono l’essenziale della marina», dove per secoli si sono avvicendate generazioni di carpentieri e meccanici, fabbri e tessitori, chiodatori e falegnami, fresatori e tornitori, chimici e artigiani che misero a punto invenzioni e tecnologie creative e anticipatrici, una élite combattiva e fiera, il cui ricordo potrebbe essere cancellato trasformando quella “fabbrica” in una meta ad uso turistico, una location per eventi da consumare come sfondo di selfie, come si vuol fare di tutti i luoghi che ricordano chi siamo stati e potremmo ancora essere.
Chissà perchè, ma quando si parla di corruzione si sentono tutti distrattamente esonerati dall’entrare nel tema. Secondo me ci sono talmente tanti che la praticano da non essere argomento di dibattito. Si vede da quanti commenti sono arrivati.
Non mi trovo per niente in sintonia, purtroppo bisogna dirlo, con la tipica mentalità italiana, così come è diventata in questi ultimi decenni.
Eroi della sanità che tutto il mondo ci imita ?
https://twitter.com/corrmezzogiorno/status/1490771593815072771