L’autocitarsi potrebbe essere un segno di rincretinimento, oppure magari un richiamo alla responsabilità di quel che si è scritto. Nel dubbio ripropongo più giù il brano di chiusura di un mio saggio di una quindicina d’anni fa, in cui mi pareva di intravedere, nel contesto del tradursi delle culture le une nelle altre, alcuni tratti ed implicazioni dell’emergente ‘pensare globale’ – al di fuori dei triti luoghi comuni del ‘multiculturalismo’ criticati poco tempo fa anche da ilsimplicissimus; e lo facevo partendo dalle tesi, parte condivisibili e parte provocatorie, enunciate da Vandana Shiva:
“I sistemi occidentali di conoscenza sono stati considerati, in genere, universali. Tuttavia un sistema dominante è anche un sistema locale, con insediamento sociale in una particolare cultura, classe e genere. Non è universale in senso epistemologico. È semplicemente la versione globalizzata di una tradizione locale e provinciale. Derivando da una cultura di dominazione e colonizzazione, i moderni saperi sono essi stessi sistemi di colonizzazione”.
Sull’ultima asserzione, circa i sistemi di conoscenze occidentali come sistemi di colonizzazione immateriale, ha lavorato tenacemente e, con stile non privo di ironia, la ormai decana della sociologia australiana Raewyn Connell, nell’ultimo quarto di secolo.
“Il Nord globale guida il mondo nella produzione di conoscenza organizzata, del tipo riconosciuto nelle riviste scientifiche con referee e negli attuali curriculum [cfr. dei ricercatori] universitari. Ce lo mostrano gli Indicatori quantitativi ormai familiari, attraverso diversi campi: scienze naturali, saperi tecnologici e professionali, scienze sociali e umane. Nel 2008, per esempio, il Nord America e l’Unione Europea hanno prodotto il 67,6% delle pubblicazioni scientifiche del mondo registrate nel “Web of Science”. …ma la predominanza non è solo quantitativa. La metropoli imperiale ha fornito a lungo i modelli intellettuali per le altre regioni [cfr. del pianeta]. Nonostante i mutamenti, il complesso delle istituzioni d’elite della conoscenza del Nord globale funziona ancora come il centro dell’economia mondiale della conoscenza. Questa conoscenza è basata sulla divisione internazionale del lavoro. La metropoli globale accumula dati (in biblioteche, musei, giardini botanici, riviste, banche dati ecc.), e cosa più importante è il luogo di produzione di metodi e teorie. Le regioni periferiche, invece, sono una enorme fonte di dati, raccolti da viaggiatori provenienti dalla metropoli…, da informatori locali e ora anche da strumenti automatici…” [Connell, 2018].
È facile vedere come da una semplificazione soltanto reattiva a questi dibattiti, quindi dall’assenza di un dibattito concreto, scaturisca l’odierno assalto contestatario-mediatico e poi accademico (la cattiva coscienza è sempre la peggiore consigliera) delle truppe dei decolonizzatori che assalgono con assoluto sprezzo del ridicolo i romanzi di Jane Austen, i Principia Mathematica di Newton, e gli spartiti di Mozart tutti rei in eterno del peccato e dell’infamia di ‘suprematismo bianco’.
Ma questi sono discorsi lunghi e complessi, torniamo quindi a quello che scrivevo, alquanto speranzosamente, si direbbe:
Qui l’importante non è essere, o meno, d’accordo con la posizione della scienziata e filosofa indiana Vandana Shiva, che rivendica ed illustra la differente complessità dei sistemi di conoscenze locali e tradizionali [cfr. indiani], poiché anche lei potrebbe essere vittima del suo proprio punto di vista, l’importante è che noi ora siamo guardati dall’Altro, e che lo “vediamo” guardarci; l’Altro non può essere più solo l’oggetto di una appropriazione, per quanto rispettosa o raffinata. L’essenziale è che noi possiamo accedere al campo d’ascolto e all’orizzonte dell’Altro, senza la “frenesia di volere accomodare ogni cosa al nostro modo di vedere, e spiegare ogni cosa secondo le nostre idee” (Leopardi); esattamente come l’Altro può accedere – e accede – al nostro campo d’ascolto, alla nostra formazione esperienziale. In questo gioco di interdipendenze… l’universalismo [mono-logico] occidentale perde la sua univocità, e differenti ordini di complessità possono trovare un terreno di dialogo. E questa non è una condizione episodica, ma in forza delle crescenti interdipendenze, funzionali, economiche, ambientali e mediatiche, è una condizione strutturale e, tuttavia, ancora quasi interamente inesplorata”.
Ma perché riproporre oggi queste considerazioni? Perché, nonostante la decolonizzazione di facciata, la proverbiale foglia di fico, il gioco dell’Occidente non solo non è cambiato, ma non dà alcun segnale concreto e reale di voler cambiare, al livello della politica e dei media, soprattutto.
Così in quest’ultimo mese gli Stati Uniti hanno varato e stanno predisponendo le ennesime misure di contrasto a Russia e Cina. In un ordine presidenziale firmato da Biden, ogni attività materiale o immateriale di cittadini americani o di stranieri ma operanti sul territorio americano, che possa essere ricondotta direttamente o indirettamente alla Russia, e che possa risultare di ‘turbamento’ alla democrazia americana, sarà perseguita da qualunque agenzia dello stato e sanzionata come minaccia alla sicurezza nazionale.
Come nota alla lettera Pepe Escobar, l’ordine presidenziale “de facto piazza chiunque riferisca sulle posizioni politiche della Russia tra le potenziali minacce alla «democrazia americana»”; poi citando l’analista politico di massimo livello Alastair Crooke, che ha rimarcato come questa sia una “procedura riservata usualmente per i cittadini di stati nemici in tempi di guerra”.
Mentre alla Cina è stato riservato, come caloroso benvenuto nella nuova guerra fredda – ce ne informa assai puntualmente dalle colonne di Russia Today, un analista politico e scrittore inglese, Tom Fowdy – dal Senato americano un disegno di legge di 270 pagine, dal titolo “Strategic Competition Act”, mirato a formalizzare la “competizione geopolitica” con l’ex impero celeste.
“Il disegno di legge – cito Fowdy – promette centinaia di milioni di dollari in varie modalità destinate a iniziative mediatiche focalizzate contro la Cina. Queste includono sino a trecento milioni di dollari [quanti miliardi delle vecchie lire!] per uno sforzo, apertamente descritto, di diffondere informazione sull’impatto negativo della Via della Seta cinese nei paesi partecipanti, programmi per creare ‘influenze anti-cinesi’, un piano per ‘formare giornalisti’ con l’obiettivo di contrastare Pechino, e milioni in più in finanziamenti per Radio Free Asia perché possa espandere la sua copertura informativa nei linguaggi specificati, mandarino, cantonese, tibetano e lingua uigura” (per la propaganda già da tempo in atto sul presunto genocidio degli Uiguri vedi ilsimplicissimus qui e qui). Quello che è più interessante ora, per noi, è però quanto aggiunge Fowid verso la conclusione del suo pezzo: “Il pensiero politico occidentale è costruito sull’assunto che esso possiede un monopolio su che cosa è concepito come ‘verità politica’, che è la fonte di tutto l’illuminazione spirituale e, nell’esercitare quel ‘monopolio’, ha il mandato divino di evangelizzare gli altri con quella verità. (…)” E questa ‘logica’ regge, ancora secondo Fowid, anche il giornalismo occidentale (ed aggiungo io, il suo lettore medio) che si accredita come “la sola e imparziale fonte della verità” mentre chiunque vi si oppone e lo critica sta producendo “propaganda”, un termine, ed il cerchio si chiude, che fa rima con “stato nemico”.
Che probabilità hanno di avere successo queste messe in scena planetarie? Non è facile rispondere, anche se l’esperienza della pandemia mediatica già suggerisce previsioni di stampo nettamente orwelliano. Tuttavia un problema è che non sembra esserci nelle elite occidentali attuali alcuna volontà di cercare la “verità” nella reciprocità del dialogo, rispettando e tutelando i rispettivi interessi e specificità, e non solo nella brutale o astuta contrapposizione con l’Altro; ma un secondo problema è che sembra non esserci più dall’altra parte, quella dei supposti ‘assassini senz’anima’, alcuna intenzione di stare al vecchio gioco imperiale delle parti. Come scrivevo, noi ora siamo guardati dall’Altro, alla pari, e “l’Altro può accedere – e
accede – al nostro campo d’ascolto, alla nostra formazione esperienziale…” e noi, se lo vogliamo, se ci rivolgiamo a Lui/Lei, possiamo vedere l’Altro/a guardarci, e ascoltarne i pensieri. Un cenno di ciò che gli altri vedono di noi ce lo danno le parole di un’intervista di questi giorni rilasciata dalla portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, figura di primissimo piano nella sfera comunicativa russa:
“Sembra che i nostri partner occidentali abbiano lascito correre l’immaginazione selvaggiamente. Sembrano vedere cose quando non là c’è niente, e non vedere l’ovvio. È incredibile, davvero, essere capaci di vivere in una terra di fantasia”. La gravità di quest’affermazione, nel contesto di un confronto geopolitico, potrebbe e dovrebbe darci da pensare…non ai perfidi Russi, ma agli ottusi noi stessi.
Ma Zakharova non si limita all’aperta canzonatura e, sia pur rimanendo nella cornice ufficiale della narrazione pandemico-vaccinale aggiunge: “La crisi da coronavirus ancora in atto ha evidenziato enormi problemi nell’Unione Europea e nell’Occidente come un tutto, poiché hanno avuto tutte le risorse per guidare la battaglia globale contro la malattia, ma hanno fallito [aggiungo io: precipitando le nostre società, la nostra vita quotidiana, nel caos sanitario, scientifico, economico, burocratico, pedagogico, ecc.]. E ciò prova che leader che chiamano se stessi leader del mondo non sono veramente dei leader. Sono soltanto dei ‘galletti’ (in inglese suona chest-puffers, che alla lettera sarebbe gonfia-petto, dei bulletti insomma)”.
Nota per lettori e lettrici molto esigenti: faccio osservare che in ossequio alle linee guida del manuale
globale del politically correct nel post viene reso omaggio al pensiero di una scienziata non occidentale, di
una sociologa transgender del Sud del mondo, e di una politica slava dall’alto profilo istituzionale.
Sorry, but I prefer the Italian: even with all its “refusals” it reads better
Tra occidente ed oriente potrebbe ora iniziare una nuova “guerra fredda”, ma stavolta, differentemente da quella USA – URSS (dal dopoguerra al crollo del muro di Berlino), dove si confrontò il dirigismo economico pianificato sovietico ( che perdette ), con la libertà di mercato americano ( che vinse), oggi il confronto potrebbe essere tra un dirigismo economico totalitario cinese, già sperimentato, con un neo-modello sperimentale, dirigistico economico-sanitario american-europeo. Tutto fondato su sistemi, modelli, struttura tecnologie ecc. e per nulla fondato sull’uomo che dovrebbe usarli.
http://www.rinascimentoeuropeo.org/democrazie-insostenibili-di-ettore-gotti-tedeschi/?fbclid=IwAR3ymHUO_8iIaHg1vuPt5pD0uJX5ZWWxregaW8mYy1ECP9LoIGtL_2n4tAk
La frase di Leopardi citata data quasi due secoli e mi sembra troppo avanzata rispetto ai miti sulla conoscenza, sulla comprensione di se stessi che l’Occidente nutre di se stesso, sull’egemonia che vuole imporre con il falso idolo della globalizzazione che, come osserva Vandana Shiva, non è altro che la proiezione di potenza di un’area locale egemoniszzata da una classe sociale che vede se stessa come l’immagine perfetta di come deve essere modellata la persona umana…il pensiero destrutturante dalla globalizzazione è comunque avanti, così come della conseguente pretesa di colonizzazione…la politica slava citata , Maria Zakharova ci ricorda la follia che si è impadronita dell’Occidente (mi piace ricordare in proposito Franz Fanon)…una follia in cui delirio, narcisismo, paranoia sembrano essere , assieme alla crudeltà, la cifra di una civiltà che si arrotola su se stessa na ell’abisso della propria vacuità
L’essenziale è che noi possiamo accedere al campo d’ascolto e all’orizzonte dell’Altro, senza la “frenesia di volere accomodare ogni cosa al nostro modo di vedere, e spiegare ogni cosa secondo le nostre idee” (Leopardi)