imageAnna Lombroso per il Simplicissimus

La musica è finita:  gli amici sono andati a casa, niente girotondi nemmeno per i bambini, i post it non li fabbricano più, il bavaglio se lo sono stretto da soli, certi colori viola sono sfumati in rassicuranti azzurri.  È che a far suonare la banda era uno, contro il quale si indirizzavano – inoffensive – strombettate, pernacchi e sberleffi. Evaporato lui, con quasi tutti i suoi quattrini, i suoi reati, le sue cene eleganti trasferite da giovani imitatori in chiese e siti storici, le discutibili amicizie, anche quelle emulate con convinzione, si misura che la sopportazione è illimitata, che resiste a ruspe, tunnel, furti di beni, diritti e sicurezze, oltraggi, umiliazioni, condanne a morte per malattie non diagnosticate,annoverate nel paniere dei lussi immeritati.

Tante volte si è detto che Renzi ha preso come una missione il completamento aberrante delle infamie del suo padrino più o meno occulto, combinandole con una cieca, anzi preventiva, ubbidienza ai comandi dell’imperialismo finanziario, ascoltati e eseguiti ancor prima che diventino raccomandazione, lettera, direttiva, facendo assumere all’Italia il ruolo di laboratorio di repressione, autoritarismo, fine del lavoro, cancellazione del Welfare, che perfino il popolo, dico il popolo, greco ha rifiutato.

Adesso è la volta delle intercettazioni. Lo so, sembrano un tema di retroguardia, un particolare, un neo nella grandiosa, rapace e ferina bellezza del golpe all’Italiana: i più scettici, i più disillusi, i più realisti vi diranno che è irrilevante, che siamo tutti controllati, invasi, sorvegliati da operatori, telecamere, insomma che la tecnologia ha cancellato la privacy. Beh non è così: la riservatezza resta una prerogativa ad uso dei potenti ed è la politica, è il potere economico che impiegano la tecnologia per piegarla ai suoi bisogni.

Sappiamo tutti che se  usiamo la carta di credito veniamo localizzati, che  viene individuato che tipo di transazione viene effettuata e quindi che si può conoscere tutto sui nostri gusti, sulle nostre disponibilità finanziarie e così via. Ma questo non legittima che poi, la successiva raccolta delle informazioni implichi che chiunque se ne possa impadronire impunemente.  La verità è che – e la lotta al “terrorismo” ha dato una mano – è concreta e operativa un’alleanza di fatto tra soggetti che trattano i dati per ragioni economiche,  agenzie di sicurezza che li  elaborano  per finalità di controllo, imprese che ne fanno strumento di ricatto. O non vi ricordate cosa prevede quel capolavoro ammazza lavoro che sia chiama impropriamente Jobs Act? e che  grazie all’acceso al pc, a telecamere, a dispositivi di sorveglianza ha inteso introdurre azioni lesive della dignità del lavoratore, combinando ricatto e intimidazione, invadenza e prepotenza,  grazie a un controllo illimitato su prestazioni, abitudini, comportamenti

Si la difesa della privacy è diventata compiutamente un privilegio esclusivo del ceto dirigente, della classe politica, anche quella che ha sempre rivendicato di non aver nulla da nascondere, quella che un tempo reclamava e desiderava essere intercettata a scopo dimostrativo della sua trasparenza e integrità, la Serracchiani: “A nessuno il dottore ha ordinato di fare politica e chi la fa deve dare l’esempio. Il politico rappresenta le istituzioni e quindi non esistono suoi comportamenti privati che non incidano sulla credibilità pubblica”, la Bindi, Speranza, Ferranti, la relatrice, Orlando, il ministro, Scalfarotto, il fan delle libertà, possibilmente sue, insomma un Pd ben determinato a ritrovare unità intorno a potenziali inquisiti eccellenti, a circoscrivere il potere delle “toghe rosse”, a fronteggiare la pubblicazione di colloqui pruriginosi o criminali, dicendo e facendo quello che diceva a faceva il nemico d’un tempo.

Ha sostenuto Davide Ermini,   responsabile giustizia del Pd:   “Captare parole fuori contesto ricorda le vite degli altri, il regime del terrore. Per noi ci vuole libertà di stampa e libertà di vivere”, dimostrando di essere andato al cine dove ha preso coscienza dei crimini comunisti, ma dove si è distratto sulla possibilità di vivere, meglio se con dignità, che il suo governo limita ogni giorno, togliendo lavoro, sicurezze, diritti, assistenza, istruzione, cultura.

Il fatto è che se la libertà riguarda solo un segmento di cittadini diventa licenza. Ed è questo che vogliono, che non possa esistere pubblicità alle loro trasgressioni, che l’impunità della quale godono si mantenga negli arcana imperii, che la riservatezza su corna, furti, vizi, sregolatezze, misfatti, abitudini e malattie imbarazzanti, diventati temi per lunghe serie di trasmissioni molto approfondite reiterate su tutti i canali televisivi, sia un perenne velo pietoso opportunamente steso a tutela delle loro esistenze inviolabili e superiori.

Il capolavoro a garanzia di questa istanza è la previsione che intercettazioni chieste da un magistrato con le informazioni che entrano nel dossier giudiziario, non possano avere diffusione fuori  dalla cerchia di quel centinaio di persone coinvolte, mica poche.  Avvocati dunque, cancellieri, giudici, investigatori, amici e nemici degli inquisiti con buone relazioni negli ambienti giudiziari, amici e nemici della eventuali vittime. E naturalmente anche giornalisti informati, ma – per legge – obbligati al silenzio sugli orologi del figlio di Lupi, sul brand di Carminati, sul business delle cordate del cemento veneziane, sui dialoghi da tavolo del biliardino Renzi-Adinolfi e soprattutto sulla coazione a telefonare che può aver afflitto il Colle.

Perché a sancire l’incolmabile distanza tra noi e loro, la necessaria e doverosa separazione tra i nostro doveri e il loro diritti, tra le nostre responsabilità e i loro bisogno, deve esserci l’interdizione a sapere per i cittadini, officiata dai  sacerdoti messi a guardia del silenzio, della censura, dell’erogazione differenziata di dati e conoscenze: i media ufficiali, i giornalisti di regime, quelli che elargiscono solo le informazioni suggerite, i dati sollecitati dall’alto. Una norma “ad partitum unicum” dovrà “garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, in particolare dei difensori nei colloqui con l’assistito, e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale”, prevedendo  fino a 4 anni di carcere per chi “diffonde conversazioni fraudolentemente captate con la finalità di recare danno alla reputazione”.

Non credo comincerà una guerra per bande tra le gazzette per garantire l’informazione: basterebbe ricordare lo slogan dei tempi non sospetti, quando i giornalisti reclamavano il “diritto a informare” e non il “dovere di informare”. Credo invece che si avvicini sempre più il definitivo bavaglio nei confronti di chi aspira a dire e conoscere, a informarsi e a divulgare nell’unico e sia pur disordinato spazio di libera espressione rimasto.