Anna Lombroso per il Simplicissimus

Arrivo ultima a commentare l’ospitata dell’onorata famiglia Casamonica nella televisione di Stato da tempo disonorata. Meglio così. Mi posso risparmiare osservazioni così ovvie da risultare banali sullo scandalo di chi ha contribuito al successo imprenditoriale del clan rom-romano, di chi li ha aiutati per farsi aiutare, di chi li ha tollerati perché favorivano altre intolleranze, di chi li conosceva bene, magari  per essersi rivolto a loro per servigi non poi molto diversi da quelli che offrono gli istituti bancari  o per comprarsi un bel Suv a prezzo di favore, di chi ne aveva avuto appoggi elettorali e di chi e di chi li considerava un presenza folkloristica, ingombrante ma totalmente assimilata nel panorama della città, cui infine si era fatta l’abitudine come al brutto monumento per un Papa, ai furgoni che vendono hot dog ai Fori, ai marciapiedi dissestati, ai rubinetti in bocca ai mascheroni antichi. Tutti in ugual misura sdegnati, perché ai benpensanti, alla morale comune e a chi la dirige e indirizza certe presenze, certi fatti, certe amicizie vanno bene finché restano in una ombra pudica, in una provvidenziale clandestinità, in una zona grigia, di modo che a certi attori non venga offerto un palcoscenico con il rischio che si possano intravvedere quelli che stanno dietro, altri burattini o burattinai.

Ma si doveva intuire il pericolo che la smania protagonistica di qualcuno, che la supremazia della società dello spettacolo sulla società reale portassero a galla quello che per il ceto dirigente era meglio rimanesse sommerso. Proprio come  certe emergenze – non tutte sono utili per fare cassetta , come certe vergogne – che loro non provano, ma che potrebbero suscitare sussulti di coscienza, come certi vizi – concessi solo a chi si arroga una diversità superiore, e che, per chi comanda, sarebbe preferibile non avessero l’onore della cronaca, neppure di questi tempi nei quali l’informazione è talmente addomesticata da non far paura a nessuno, tanto che i bavagli vengono sbandierati solo per incutere soggezione alla rete, ai blog, a qualche magistrato, a qualche matto che continua a essere innamorato della verità.

Per carità, c’è anche, non remota, l’ipotesi che a promuovere protagonisti della commedia dell’arte all’italiana i componenti di una banda malavitosa di strozzini e evasori, sia l’intento ispirato a legittimarli, a mostrarceli come presenze famigliari, quasi irrinunciabili di una società varia, sregolata, nella quale tutto fa spettacolo e tutto fa impresa, cooperative e onlus comprese, impegnate nel brand dello sfruttamento dei diseredati. O anche esibirli per ostentare una mafia rozza, volgare, grottesca come in certe sceneggiate, così da sdrammatizzare tutto il fosco sottobosco della criminalità organizzata romana. O quella ancora più oscena, di prestare la scena di una tv embedded alle loro intimidazioni, ai loro avvertimenti trasversali, ai loro obliqui ammonimenti, magari in cambio dell’immunità per qualche autorevole impunito. Che in fondo, come diceva Joyce, Roma fa venire in mente un tale che sbarca il lunario, dietro compenso, esibendo il cadavere della nonna.

Chi comunque gode di totale impunità sono i registi della nostra società dello spettacolo, che mostra o censura, dà voce o zittisce, fa riecheggiare o mette il silenziatore. In modo da continuare a girare l’unico film che interessa loro, personalità mediocri, osses­sio­nate dalla conservazione del loro potere, con l’occhio sem­pre fisso ai dati dell’affermazione per­so­nale, con l’unico  scopo di vin­cere la concorrenza di avver­sari e sodali, tanto da cancellare partecipazione e libere elezioni, come di conservarsi la protezione interessata di padroni interni ed esterni.

Così la rappresentanza si è convertita in rappresentazione e le  esistenze dell’umanità si sono mutate in narrazioni che non vogliono ostacoli, intoppi, salvo le interruzioni pubblicitarie. La sceneggiatura elementare scritta dai padroni del mondo deve persuadere stati e popoli che quello che avviene è frutto di incidenti riparabili, che carestie, epidemie, morti, catastrofi siano il prezzo fisiologico da pagare per lo sviluppo, che esodi biblici siano suscitati dall’insano istinto a imitare  il modello occidentale, che  sia sufficiente alzare muri e recintare per scoraggiare la disperazione, la paura e la fame, e che se poi il sale della terra arriva tant’è usarlo per dare sapore alle nostre vecchie pietanze, natalità zero, forza lavoro poco incline alla servitù, mestieri e fatiche disprezzate.

E una sceneggiatura non resta nel cassetto, deve diventare spettacolo: per decretare il successo dell’immagine dei  pubblici attori e per appagare le smanie di chi vuole diventarlo anche per cinque minuti,   perché chiunque possa discettare a sproposito  di sport,  bioetica,  dietetica, immigrazione, guerre, oroscopi, inclinazioni sessuali, in modo che tutto si svuoti di senso e diventi semplicemente flusso di parole e immagini. Devono essere spettacolari le grandi opere, le mostre itineranti,  l’imbalsamazione commerciale dell’arte coi gladiatori al Colosseo, i viaggi da compiere issati all’ultimo piano di immensi bastimenti. Lo sono stati l’attacco terroristico alle torri gemelle, le decapitazioni, l’uccisione simbolica di nemici della civiltà, l’assalto ai treni di disperati, a un tempo evocazione sinistra di altri binari e  monito intimidatorio per chi teme invasioni barbariche, in una potente sintesi  di concetti post modernisti e postdemocratici e  di neomedievalismo integralista.

Aristotele giustificherà la sua teoria della inferiorità spirituale, chiamando barbari popoli generalmente asiatici, superstiziosi, ignoranti ed inclini alla schiavitù. D’altra parte è nell’Iliade che   il barbaro, barbaros è colui “le cui parole somigliano ad un balbettio”. Ma forse ai nostri tempi e per noi si addice di più la definizione di Marcel Proust, secondo il quale barbaro non è colui che non conosce la civiltà ma colui che, avendola conosciuta, ne tradisce i valori.