Visto che la guerra di civiltà è tornata di moda, che persino la libertà d’espressione è di nuovo in voga, purché ovviamente si accordi con le “Autorità” (vedi Dieudonné ed Erri DeLuca), non riesco a privarmi del piacere di parlarne e di mostrare i limiti e le contraddizioni con cui questo armamentario fraseologico ottocentesco è stato rispolverato a partire dagli anni ’90 ed è diventato sempre di più il nucleo di legittimazione delle élite al potere.

Com’è noto la guerra di civiltà è stata per quattro secoli il riconoscimento della superiorità occidentale, resa possibile da  una momentanea preminenza tecnologica e la ratifica della sua pretesa di essere la civiltà universale. Proprio in nome di questo universalismo è stato intrapreso lo sterminio di intere popolazioni e lo sfruttamento coloniale intensivo di tutto il pianeta, mentre le filosofie cattedratiche asserivano il diritto di ergersi a supremo sigillo della storia. La guerra di civiltà esprimeva allora il buon diritto di rapina del mercante, dell’avventuriero, delle dinastie prima coronate e poi industriali di fare man bassa dovunque, così come le chiese cristiane avevano fatto buon raccolto di anime pagane.

Il termine ebbe un rapido declino con l’inasprirsi delle lotte sociali  e trovò il suo crepuscolo con la guerra mondiale e soprattutto con il successo della rivoluzione d’ottobre: questo fattore non solo introdusse una frattura profonda dentro l’Occidente stesso, frattura che diventava preminente nella logica di potere della borghesia capitalista, ma contemporaneamente e paradossalmente costituì una sorta di conferma dell’egemonia culturale, permettendo di interpretare in termini di conflitto sociale all’europea tutto ciò che si muoveva nel mondo e in particolare le pulsioni di liberazione dal dominio occidentale. L’espansione o la repressione del comunismo rese obsoleta la guerra di civiltà al punto che quando ci fu il crollo dell’ Unione sovietica, venne dichiarata la fine della storia con la proclamazione nei secoli dei secoli della vittoria degli occidentali buoni su quelli cattivi.

Con la globalizzazione successiva a fine di profitto , l’emergere di nuove potenze economiche, il tentativo di stroncare nello stesso occidente l’idea  di uguaglianza al suo interno, il temine guerra di civiltà è riemerso dai bassifondi della cultura in cui era stato sprofondato dopo la seconda guerra mondiale e i suoi stermini, per riprendere vita negli anni ’90 sotto forma di indignato stupore: quello di rendersi conto della relatività occidentale, il fatto di essere una civiltà fra le altre e quindi di non poter accampare alcun diritto “speciale”. E’ vero che si sta tentando di sostituire con le missioni di pace la politica delle cannoniere, ma la cosa non funziona bene sia perché è enormemente diminuito il gap tecnologico, sia perché si sono ribaltati i rapporti demografici: il tentativo di imporre  democrazie fantoccio qui e di sostenere tirannie medioevali là, l’invenzione di opposizioni fasulle in un posto o il soffocamento di opposizioni reali altrove, la creazione di caos  a seconda degli interessi delle multinazionali e dei centri finanziari che ormai si servono degli Stati, trova una resistenza sempre più forte.

La riesumazione della guerra di civiltà è parallela alla terribile riscoperta delle diverse civiltà e ora al significato tradizionale di preteso universalismo che ancora sussiste e prende corpo nella incredulità di vedere che gente nata e vissuta in Occidente si dedichi alla jihad, una variante laica del “cuius regio eius religio”, si intreccia un nuovo e opposto filone di significato più adatto ai tempi: quello della nostra diversità. Una diversità  ovviamente migliore , da preservare ad ogni costo, segnata dalla distinzione tra stato, diritti e fede religiosa non facendoci nemmeno sfiorare dal dubbio che la religione, nei suoi aspetti più integralisti, è semplicemente una difesa identitaria, un modo per esprimere attraverso un bagaglio culturale, il desiderio di essere riconosciuto come eguale.

Questo nuovo significato di guerra di civiltà ha però un aspetto più perverso rispetto al precedente: esso, mettendosi i trampoli dell’emotività fabbricati dal terrorismo, permette di nascondere ai cittadini occidentali il fatto che la diversità di cui sarebbero portatori, ovvero l’essere titolari di diritti inalienabili e di diritti fattuali, è già sotto attacco da parte delle élite prontamente travestitesi da crociati. E che anzi il terrorismo altrui fa da schermo a questo processo, permettendo di sostituire sempre di più la diversità reale dei diritti personali, con la vaga appartenenza a un’altra religione o etnia o conglomerato di potere o visione del mondo. Per questo temo molto di più la retorica della lotta al terrorismo dei terroristi.