Anna Lombroso per il Simplicissimus

Di una cosa potete star certi: se non appartenete a una generazione offesa, se non pensate che la vostra voce sia stata marginalizzata per via di scelte  che riguardano le vostre inclinazioni o la vostra appartenenza a minoranze in condizioni di marginalità all’interno di più numerose minoranze; o se  siete italiani, ben collocati virtualmente nella tana protetta della superiore civiltà occidentale, però cominciate a interrogarvi sul vostro stato che vi ha fatto scivolare inesorabilmente tra i reietti, sulla progressiva limitazione dei diritti e delle prerogative conquistate, che credevate inviolabili, ma che sono state alienate, peggio ancora: sappiate che in questi casi vi è interdetta anche la possibilità teorica di chiedervi chi siete, come possa essere riconosciuta e difesa la vostra identità di cittadini e persone.

La vostra colpa è aver accettato come prova di maturità culturale e sociale l’apertura totale, la cancellazione dei confini che segnano l’appartenenza, la deplorazione per quel certo senso del territorio che vi ha permesso di sentire che non si trattava solo di condividere un luogo fisico ma anche di stare all’interno di una comunità morale e sociale e perfino emotiva,  mentre l’aspirazione doveva essere quella a nuove forme di cittadinanza che approvassero e favorissero la libera circolazione di merci, capitali, uomini e prodotti, valori unici e monolitici, in una nazionalità e in una estensione mondiali che contrastassero il rischio  che la demarcazione della spazio fisico degli uni escludesse gli altri, e che essere nati e vivendo in un posto si acquisiscano diritti non concessi a chi ci arriva e ne è automaticamente escluso.

Siete stati convinti dell’obbligo di cogliere le  opportunità del nuovo ordine globale e dei canoni geografici e etnici che vi si associano, demolendo l’edificio di concetti che facevano parte delle società moderne: famiglia, parentela classe, democrazia, stato, sfera pubblica politica, per dischiudersi a un cosmopolitismo ricco di occasioni che incrementano i flussi, le reti, i traffici di informazioni, beni, servizi, capitali.

La difesa di identità, tradizioni, usi locali viene assimilata a arcaici nazionalismi, secessionismi e infine alla colpa più grave quella di essere soggiogati dai fantasmi del sovranismo, sicché perfino la solidarietà “prepolitica”, quella dei legami di parentela, amicizia, religione, adesione  auna comunità, è retrocessa a vincolo primitivo che ostacola la crescita sociale della persona e più in generale lo sviluppo dell’intera società.

Ma tutto questo accadeva prima, fino a tre mesi fa, quando questo edificio di “ideali” e principi è stato scardinato per restituire dignità irrinunciabile alla tutela dei “confini” incancellabili di una nazione che aveva provveduto a ridisegnarli secondo un disegno di soppressione dei diritti, della lingua, della cultura, di una intera comunità territoriale attraverso una vera guerra di conquista, repressione violenta e ricorso a leggi razziali.

Merito di questa nazione sarebbe quello di difendersi da una “invasione” valorizzando le sue frontiere nelle quali è asserragliato un popolo che vuole aderire incondizionatamente all’ideologia dominante nell’Occidente, caratterizzata da quei valori che propugnano la rinuncia alla propria identità per uniformarsi a quella vigente stabilita e imposta da un potere imperiale autocratico che si regge sulla potenza dell’intimidazione, del ricatto, delle armi, con le quali da più di settant’anni integra e assimila violentemente popoli e stati.

E quindi che importa di fronte a questo impegno morale di aiuto e “fratellanza” con un governo marionetta, con dichiarati neonazisti, con il ceto dirigente di un popolo che da si è fatto espropriare di formidabili risorse e che sopravvive dei salati delle su donne mandate in esilio, dover affrontare sacrifici economici, vivere una condizione di rischio, compreso quello di essere potenziali scudi umani, concedere sempre più vaste porzioni di territorio alla bulimia bellica dell’alleanza, affrontare razionamenti, carestia, perdita di beni essenziali, indirizzare fondi e finanziamenti necessari a rivitalizzare l’welfare compromesso da anni di privatizzazioni, svendite cattiva gestione, speculazioni, verso una corsa agli armamenti?

Che importa l’abiura di valori, la ridicolizzazione di principi che credevamo inviolabili a cominciare dall’antifascismo, svenduto per omaggiare quattro sgallettate consorti e fidanzate dei supertatuati  brigatisti dell’Azov, dileggiato in piazza facendo sfilare le bandiere della Nato insieme ai vessilli dell’Anpi, offeso perfino sul palco di un festival di canzonette, diventato merce da scambiare per assicurarsi una comparsata nel talkshow, una colonna di giornale?

Importa eccome, guai se non rialziamo la testa ora, ora che siamo stati spinti dentro a un conflitto dalle tremende conseguenza che ci meritiamo se pensiamo a essere predestinati a un ruolo di vittime  anonime, come sia stati condannati a quello di schiavi precari, cavie, esercito da lavoro e probabile esercito di leva da arruolare per combatterci gli uni contro gli altri.