Anna Lombroso per il Simplicissimus

Tutti a lamentarci della gestione dell’emergenza “sanitaria” e del necessario stato di eccezione che ha prodotto limitando il godimento di garanzie e prerogative, invece ecco la dimostrazione che lo stato di diritto esiste vivo e vegeto in uno di suoi irrinunciabili capisaldi etici: la qualità riabilitativa della pena detentiva. Abbiamo infatti appreso dai giornali sempre così attenti ai temi della legalità che è stata offerta a un ex detenuto un’opportunità di riscatto, la possibilità di intraprendere un cammino di redenzione attraverso il lavoro che rende liberi, a patto che si sia equipaggiati di green pass.

L’ex galeotto si chiama Buzzi e il carcere l’aveva già conosciuto una prima volta quando venne condannato a 30 anni per omicidio volontario nel 1983, quando si fa conoscere come il detenuto modello che a due mesi dal verdetto si laurea in cella con 110 e lode in Lettere e Filosofia.  Poi ci torna in galera in qualità di co- protagonista, insieme a Carminati, detto er Cecato, del docufilm noir “Mafia Capitale”, da boss della cosca romana che governava il Mondo di Mezzo, adulato, sostenuto, vezzeggiato da stampa, decisori, autorità, istituzioni come modello da esportare della fertile restituzione alla società  di  un manigoldo redento impegnato attraverso attività consortili e  cooperative di lavoro a reintegrare nel consorzio civile altri  ex furfanti.

E difatti, quando venne scoperto il pentolone avvelenato della cupola romana, che,  pur avendo tutte le caratteristiche di un’organizzazione criminale mafiosa non ha ottenuto il marchio  doc da parte del tribunale, retrocessa a mediocre e modesta associazione di delinquenti “comuni”, si sprecarono le citazioni estatiche di testimonial famosi delle sue azioni benemerite con le foto di amministratori e autorità accomodati al suo tavolo in festose occasioni conviviali. Segno che è proprio un talento del bandito bonificato dalla detenzione, quello di imbandire, attovagliare, impiattare.

Perché   proprio durante l’eclissi della ristorazione, durante la quale hanno dichiarato fallimento i santuari degli chef, o le pizzerie, i locali fusion e etnici, o le combinazioni creative dei piatti dei bujaccari che servono trippa con sushi e kebab vegano,  ecco che il Buzzi, mentre si batte in Cassazione per il ricalcolo della pena inflitta dalla corte d’Appello (12 anni e 10 mesi), ridiventa “imprenditore” con un pub, Craft, Beer e Burger.

E da simpatico buontempone in vena di satira creativa il creativo manager della ristorazione propone un menu di panini rievocativi della torma tumultuosa di manovali del Mondo di Mezzo: er Secco, Scrocchiazeppi, il Freddo, il Libanese, Dandy, er Terribile,  oggetto dell’attenzione dei cronisti di costume  che hanno preso il posto di quelli di giudiziaria.

E capirai, come non giocare sul fatto che oltre ad aver trattato con una pletora di avidi forchettoni beneficati dai suoi servizi,  lui stesso è una “buona forchetta” che durante il soggiorno a Tolmezzo ha goduto della cucina di un altro detenuto, Robertino Spada, che ha fama di essere un cuoco eccellente, a dimostrazione del proverbiale rispetto dei requisiti umanitari del nostro sistema detentivo.

Come non trastullarsi coi suoi umoristici propositi, nel solco della tradizione romanesca, quella di “oggi non si fa credito domani si”  che prevedono prezzi diversificati alla clientela, facendo pagare doppio ai pubblici ministeri e il triplo ai giudici.

Come non essere incantati dalla prevedibile riesumazione in chiave pop  degli usi di Cencio alla Parolaccia o Meo Patacca, immaginando che da Craft, Beer e Burger  la clientela di curiosi, fan: si attende tra gli altri Bobo Craxi in veste di virtuoso solista, non del mitra per carità ma di chitarra, turisti e amanti del gossip  verrà apostrofata con  sberleffi, contumelie scurrili e pernacchi, in modo che possa godere di uno spaccato vernacolare di pura romanità.

Gioisce il suo avvocato: “Buzzi ha una famiglia da mantenere e una bambina da crescere… Il sistema che abbiamo non consente a un ex carcerato di trovare lavoro. Ha scelto un settore redditizio e spero vada bene”.

E come no, anche in questo contesto ha vinto il politicamente corretto che ci impone di stare al fianco di Jean Valjean, di tifare per il Conte di Montecristo ricco e spietato o per Papillon, dando credito alle affermazione del socio più creativo e influente del sodalizio, Carminati   che aveva definito le relazioni che intercorrevano tra i fedelissimi della sua cerchia  «quattro chiacchiere tra amici al bar», dando per buona la decisione del tribunale che ha bocciato l’accusa di associazione mafiosa per la cosca che a Roma ha tessuto una trama  inestricabile di  affari illeciti con politici e colletti bianchi, negli appalti dell’emergenza immigrati, del verde pubblico, della raccolta rifiuti, retrocedendola a maldestro racket non strutturato di manovali del crimine.

È stato così che il sistema di gare pilotate, ricatti e corruzione, intimidazioni e usura, percosse e minacce messi in atto da  er Cecato, Spezzapollici, er Nero, o Pazzo,   Scassaporte, Gino il mitra, Puparuolo, proprio come i nomi dei panini del pub, col valore aggiunto narrativo di  rituali di affiliazione a conferma di antiche fedi politiche per rafforzare l’adesione a quella rete opaca, abile nel nutrire l’humus associativo e la coesione  di adepti e proseliti, anche tramite l’intimidazione, la riduzione in soggezione, le regalie o le botte è stato degradato a   cerchia di soci  volonterosi ma spregiudicati dediti a reati “comuni”, grazie all’attenuante geografica di esercitare le loro attività a Roma e non a Corleone, così poco velenose e tossiche da poter essere trasferite anche nella cucina di una trattoria.

Pochi fenomeni come la mafia sono stati soggetti a un processo di normalizzazione effettuato grazie a un cattivo uso della statura letteraria dei suoi antieroi, della spettacolarizzazione delle azioni criminali dei suoi affiliati, della consuetudine di esaltare quei connotati  che appartengono alla “tradizione”, coppola e lupara, rituali e lessico, mettendo in ombra la sinistra capacità di precorrere i tempi con l’impiego di procedure e tecnologie e la valorizzazione delle qualità manageriali di dirigenti e adepti.

È lecito sospettare che a monte ci sia la volontà di legittimare opache trattative così come l’interazione tra attività legali e a norma di legge e cupole ormai largamente infiltrate nel sistema bancario, imprenditoriale, negli appalti pubblici sempre più semplificati per favorire la penetrazione criminale. Basterebbe leggersi le relazioni della Dia destinate a impolverarsi nei cassetti delle istituzioni, dei decisori, delle redazioni per sapere chi sono i capofila dei gruppi che aggiudicano i brand profittevoli, oggi quelli legati a nuovi spacci, quelli sanitari favoriti della gestione pandemica.

In questo caso restano aperti alcuni interrogativi:  non sarà che qualche briciola del bottino del tandem bipartisan è stato conservato magari grazie alla strada che porta alle Cayman, suggerita a tanti sodali del passato, o che altri interlocutori privilegiati di un tempo si siano mobilitati per restituire favori, o che la redenzione bis abbia mosso a compassione istituti bancari riluttanti a concedere prestiti a qualsiasi uomo dabbene cui non sono bastati i Ristori.

E non venitemi a dire che il peggio che potrà fare il pub di Buzzi è nuocere agli stomachi delicati.