Anna Lombroso per il Simplicissimus

L’ultimo rito monarchico prima della recente incoronazione dell’imperatore bizantino, ieratico e enigmatico tanto quanto serve per mostrare la sua distanza dalla plebaglia, è stato di sicuro il funerale di Gianni Agnelli, l’avvocato (per via di una laurea in giurisprudenza) il cui mito non può essere offuscato da mediocri imitazioni contemporanee.

Cronisti e osservatori raccontarono allora di lunghe e ordinate  file di dolenti silenziosi e attoniti in attesa dell’ultimo omaggio all’uom fatale, di un corteo muto dei “suoi” dipendenti  in abito della domenica, perché il lutto raccomandava di indossare davanti alla salma del monarca i panni dei cortigiani e non la tuta degli sfruttati.  

Troppo facile interpretare lo sfilare dei quei sudditi durante la cerimonia degli addii, come un fenomeno locale, espressione di una Torino identificata e riconosciuta per la sua Fabbrica, città chiusa e provinciale, malgrado avesse dovuto aprirsi a una poderosa immigrazione, anticipatrice del disegno imperialista interno di una industrializzazione estemporanea e occasionale, predatore di risorse, speculativo e parassitario,  ancora condizionata dalla soggezione sabauda e dunque incline al culto fedele di una personalità e di una dinastia “reale” che aveva dato Lavoro alla sua gente.

In realtà il successo di un uomo passato alla storia più per la capacità e la facoltà di fare pubblica ostensione dei suoi vizi, che per le sue qualità di magnate, influencer ante litteram per  l’esibizione di tic, difetti e manie che in altri sarebbero stati ridicolizzati e al contrario replicati e emulati, è quello di una incarnazione della società dello spettacolo, di un caratterista  tagliato per interpretare un creso  elegantemente sprezzante, raffinatamente spietato, geneticamente strutturato per esercitare il diritto a avere il meglio eppure frugale nelle sue tavole imbandite con solo qualche chicco scrocchiante di caviale grigio,  cosmopolita ma con una reggia in ogni capitale, una barca in ogni porto, una donna in ogni letto, eppure vigile nella tutela di prerogative comuni e popolari, come dimostra l’oculato godimento di un assegno di invalidità per via di quella signorile zoppia diventata una sua cifra distintiva e uno spot vivente per stivaletti modaioli.

E difatti la sua leggenda gode della stessa fama sovranazionale di altri protagonisti dello star system, Lady Diana o i Kennedy che sono entrati nell’immaginario collettivo e lo occupano ancora grazie alla memoria inossidabile di eventi epocali,  matrimoni, lutti – anche i ricchi piangono – malattie esotiche, foto rubate e pettegolezzi fatti filtrare a orologeria per alimentare l’epica personale.

Così  la saga  ha messo in ombra la storia, che è quella di una icona del capitalismo rapace e parassitario italiano, le cui malefatte stiamo scontando anche per colpa della legittimazione offerta da ragionieri, capireparto, commessi viaggatori, geometri che hanno intravisto un riscatto sociale nel mettere come Pippononlosa, l’orologio sopra il polsino della camicia,  che si sono promossi socialmente preferendo il magnate assimilato per diafani congiungimenti carnali all’aristocrazia più schizzinosa,  al culto del volgare tycoon fattosi da sè.

Quella storia vera e disonorevole era cominciata proprio prima della nascita dell’augusto rampollo, nel1920 quando il nonno aveva chiuso la porta in faccia alle delegazioni operaie che chiedevano miglioramenti nel contesto delle rivendicazioni e delle richieste della contrattazione nazionale. Dopo aver dichiarato che «per le pesantezze del mercato l’incertezza di un immediato futuro e per i nuovo gravami che i provvedimenti governativi hanno preannunciato, le industrie non sono in grado di accordare un qualsiasi aumento delle mercedi», Giovanni Agnelli chiese e ottenne l’intervento delle forze dell’ordine e dei militari a presidiare le fabbriche.

Al suo atto di forza risposero i lavoratori con le serrate e le occupazioni e a oggi quella protesta resta nell’immaginario oltre che nella storia come una allegoria amara dell’impossibilità di un riscatto senza la guida e la potenza aggregativa e coagulante  di un movimento di lavoratori e cittadini, mosso, come perorava Gramsci, dalla “volontà di fondare uno Stato, di dare una sistemazione proletaria all’ordinamento delle forze fisiche esistenti e di gettare le basi della libertà popolare”.

La parabola della Fiat prende le mosse da là, opponendo la restaurazione, termine abusato dall’Avvocato, allo statuto dei lavoratori, decidendo la disdetta della scala mobile ancor prima di conoscere l’esito del referendum, dettando più dal trono del monarca che dalla poltrona confindustriale le strategie industriali del Paese, contribuendo alla normalizzazione del conflitto di classe e territoriale con le procedure e le modalità del colonialismo interno.

Se Fiat ha goduto di aiuti, sostegni, leggi ad hoc, impunità, immunità in pieno regime monopolistico, tutto il mondo di impresa privata ha goduto di riflesso dei processi che hanno anticipato l’attuale stato delle cose, anche quando le realtà produttive si sono mutate in esangui azionariati affetti da ludopatia, chiusi nei loro palazzi a aspettare i dividendi e i proventi acrobatici del gioco d’azzardo borsistico.

Fin dalla fine degli anni ’80 hanno potuto avvantaggiarsi del cannibalismo che ha portato allo squartamento delle aziende IRI e delle banche ex IMI grazie all’opera infaticabile dei camerieri del capitale finanziario internazionale, Draghi e Prodi, sono stati autorizzati a norma di legge a demolire le aziende di Stato, a cominciare da  SIP, poi Telecom Italia, finita poi nelle fauci incontentabili di   Tronchetti Provera  e infine svenduta a Vivendi, da  Alitalia,  retrocessa a vettore low cost in perenne stato di fallimento, per non parlare dell’Ilva o dell’Alfa Romeo, ridotta a brand marginale di un  gruppo impegnato in ingegneria societaria e finanziaria e disinteressato a auto e motori.

L’acme della consegna dei nostri patrimoni industriale ai privati è stato raggiunto con l’infame vicenda  della rete autostradale nelle mani dei Benetton, non ancora finita se nel gennaio scorso il gruppo Atlantia ha potuto riconfermare i capisaldi del suo piano industriale con l’incremento  delle attività di manutenzione e degli investimenti nel settore infrastrutturale in vista della ricostruzione a base di cantieri.

Non occorre essere complottisti per sospettare che ci fosse l’Avvocato a guidare i cavalieri dell’Apocalisse scatenati contro i diritti e le garanzie del lavoro conquistate in anni di lotta, per ottenere la demolizione  della legislazione e della contrattualistica a favore dei lavoratori, ben condotta non da inveterati golpisti ma da illuminati progressisti, lettori di Repubblica, abbonati all’Espresso e spettatori di Rai3, tramite vari pacchetti, vi ricordate quello Treu?, riforme, contrattazioni capestro, puntando come è successo sull’egemonia della precarietà, della mobilità, della flessibilità, grazie all’abrogazione dlel art.18, alla legge Biagi, alla giungla di oltre 40 tipologie contrattuali,  e via via al Jobs Act e alla legge Fornero con la revisione degli istituti e degli ammortizzatori sociali.

Il suo è stato un ruolo trainante, quello che lui esigeva e conquistava apriva la porta agli altri, legittimati come avrebbe detto suo nonno, con la sua proverbiale parsimonia, a non sprecare in spese sociali, e quindi a non investire in innovazione tecnologica e sicurezza, mandando avanti le industrie di stato delle quali erano fornitori, in ricerca e sviluppo, appagati dalle commesse estere, facendosi risarcire o garantire dai bilanci pubblici nel caso di fallimenti, per poi scegliere la scorciatoia delle fughe all’estero nottetempo a caccia di merce lavoro a buon mercato, leggi ambientali meno stringenti o quella delle svendite: ultima in ordine di tempo quella di Fiat-Crysler a PSA, che ha fatto strillare ai titolisti della nostra stampa: “Stellantis, parla francese. Agli Agnelli subito il dividendo”.

E dobbiamo sempre a lui l’ineluttabilità fatale che ha condannato lo Stato a erogare negli anni almeno una quarantina di miliardi in agevolazioni, aiuti, aggiustamenti fiscali a imprese squalificate, obsolete, in perenne ritardo tecnologico e in cerca di gruppi muscolari pronti a ingoiarle in un boccone, non fosse altro che per sgombrare il campo dalla concorrenza.

Eppure ieri abbiamo dovuto subire l’oltraggio della intervista all’anemico nipotino a cura di Will, una media startup nata sui social “per parlare del cambiamento” e che, si legge su Repubblica,  “ha voluto raccontare  la Storia tramite la storia quella dell’Avvocato, simbolo di un’Italia che è cambiata con il mondo intorno a sé, simbolo anche per i più giovani, ma a volte sconosciuto oltre il suo mito… da ripercorrere nei 20 minuti di un Podcast”.

Mentre  l’altro più esuberante nipote, lo zerbinotto sciupasoldi, si è azzardato ad affermare che Draghi sarà il nuovo Agnelli:  “Non parlo del carattere e neppure delle abitudini, ovviamente”, ha ammesso, “ma del fatto che, di nuovo, c’è un italiano che tutti conoscono e tutti ci invidiano, mai coinvolto nelle tignose controversie nazionali, con il cuore in Italia e la testa nel mondo“.

Ecco adesso sappiamo con certezza dove andranno a finire, se mai arriveranno, i quattrini del Recovery che poi noi dovremo restituire quando ci avranno già tolto diritti, libertà, dignità: sono già aperti i forzieri con lo stemma nella galleria dei ritratti del monarca con mascherina autoprodotta e che abbiamo già pagato.