popolo Anna Lombroso per il Simplicissimus

Tempo di serendipity. A molti sarà piaciuta la strana e felice coincidenza  per la quale il presidente Conte e il sociologo Marco Revelli hanno elencato con la medesima minuziosa precisione  le malefatte del Ministro dell’Interno del governo uscito, la lunga lista di scorrettezze istituzionali, abusi di potere, sconfinamenti, ignoranza o trasgressione delle regole.

L’uno al Senato, l’altro in un articolo vibrante di sdegno ripreso entusiasticamente dai social, hanno compiuto ambedue lo stesso  peccato, quello di omissione, il primo rimuovendo opportunamente le responsabilità dell’alleato di governo che ha scelto la via dell’arrendevolezza  per motivi  di sopravvivenza più che di salute pubblica, il secondo attribuendo solo alla “zavorra” renziana che sinistra non è e non vuole essere – come d’altra parte tutto quel che resta del Pd – le colpe di un “pensare” non più comune, di un’impotenza non sa tradursi in azione  ma nemmeno vuole e sa ascoltare e registrare la voce o respirare l’aria “della strada”.

E  tutti e due per motivi solo apparentemente differenti hanno espresso la stessa aspettativa di un governo “comunque”, che eviti le elezioni grazie, per il primo, al suo “sacrificio” e alla sua abnegazione personali, per l’altro in forma di coalizione di “sicurezza costituzionale” che eviti la possibilità che la destra incarnata dal Gradasso e dai suoi empatici, possa spostare dal Palazzo alle piazze scontente e rumoreggianti in occasione del drammatico passaggio di una manovra economica cruenta e dell’imperio tragico del default. Un “ponte” che resista fino all’ennesimo tentativo di mettere insieme una riforma elettorale che, cito Revelli,  allontani “il rischio che una maggioranza nero-verde di tipo weimariano possa manomettere la Costituzione senza neppur bisogno di un referendum confermativo”.

Insomma per quelli, tanti, che hanno creduto che con Salvini passasse la paura del fascismo, che cancellata la sua immagine, le sue foto, la sua voce, i suoi slogan, lo svolgersi pieno e appagante della democrazia potesse riprendere come in un dopoguerra costruttivo e fecondo, è il momento in cui tocca prendere atto che la rimozione volontaria e poi forzata dell’energumeno, il ridimensionamento elettorale (numericamente relativo) e di consensi (nella percezione più che nei voti) dei detestati 5stelle, sono il segnale di una crisi dell’assetto istituzionale, cominciata tanto tempo fa, quando partiti e leader hanno pensato che fosse il momento di procedere a una “revisione” costituzionale che spostasse il potere e il processo decisionale fuori dal parlamento, lo consegnasse nelle mani di una oligarchia rappresentata da una persona, un vicerè, un generale, un tecnico al servizio dei propri e dei suoi interessi di ceto.

E se Conte non vuole certo uscire dal vuoto torricelliano, dove l’invettiva e le reprimende prendono il posto dei programmi, aiutato dai compitini derisori dei problemi del Paese dell’opposizione,  coi “punti irrinunciabili” di Zingaretti che spera in un ritorno del bipolarismo con due fronti che la pensano allo stesso modo su Europa, austerità, Tav, fisco, etc.., Revelli, che fa parte di quella rara compagnia di spiriti critici dell’abiura dei partiti della sinistra tradizionale passati di buon grado ai ranghi del progressismo liberista, rivela quel cruccio diventato sentiment comune, quella preoccupazione nei confronti del malessere generale cui viene dato il nome di populismo. E che potrebbe voler dire non che si condivide plebiscitariamente il rigurgito neofascista che sale dalle viscere di Salvini, ma, molto più semplicemente e tragicamente, che la gente disapprova la gestione della cosa pubblica da parte del ceto dirigente e al tempo stesso non si riconosce in chi lo contesta, quando una volta arrivato ai posti di comando viene contagiati dalla realpolitik.

Il timore che l’astro di Salvini non sia tramontato è dunque più che legittimo, lo sa bene chi ha creato le condizioni grazie alle quali è sorto e ha brillato in cielo per più di un anno, conscio e soddisfatto che i riflettori della comunicazione indirizzassero la percezione sui temi dell’immigrazione grazie a un allarme che viene da lontano, dallo sbandieramento del vessillo della paura dell’invasione che ha prodotto le leggi Bossi-Fini, la Turco-Napolitano, la Legge Maroni, le ordinanze di Minniti,  culminati in  quei decreti-sicurezza,  colpevolmente sostenuti dai 5Stelle, che hanno coperto con l’autorizzazione al razzismo la legittimazione della repressione, grazie alle misure,  non solo unilateralmente volute, destinate  a colpire poveri di tutte le etnie e oppositori e che vanno dalla criminalizzazione del blocco stradale   alla stretta sulle manifestazioni di dissenso, nei casi della Tav, delle Triv, del Muos, delle occupazioni di fabbriche, di scioperi.

Lo sa bene chi ha dato enfasi a un umanitarismo a basso costo, esibendo uno schizzinoso disprezzo per il condottiero barbaro dei rozzi xenofobi delle periferie che si contendono spazi angusti  e desolati, per i lavoratori precari che temono la concorrenza degli stranieri propensi a svolgere mansioni non garantite, non sicure e sottopagate, proprio come vuole  la grande industria  transnazionale che usa ogni arma a cominciare da quelle belliche e  di conquista, per muovere eserciti di forza lavoro e  abbassare il costo della mano d’opera.

E lo sa bene chi ha avallato la secessione delle regioni ricche permettendo che venisse interpretata nelle sue espressioni più esuberanti dal leghista razzista contro il terzo mondo interno dal Vesuvio all’Etna, ma condivisa largamente da chi sta mettendo in piedi una mostruosa truffa ai danni del Mezzogiorno grazie alla costituzionalizzazione di una “apartheid” delle nostre colonie meridionali.

Non c’è da temere il ritorno di Salvini, non è mai andato via, era là a garantire le larghe intese che approfittavano delle sue smargiassate per consolidare il consenso da dare ai “meno peggio”, che lo denigravano e subito dopo lo blandivano in occasione di associazioni d’impresa, quelle del mito del produttivismo, del progresso, che  lo esibivano come un babau agli occhi dell’Europa conquistandosi il merito di averlo persuaso alla ragione come in molti casi, o messa da parte in rari altro, che hanno raggiunto il risultato di far fuori un movimento che si è arreso a fare il vaso di coccio, impreparato e inadeguato ma che ai loro occhi era un rischio destabilizzante.

Si sono resi un servizio a vicenda, preparando un dopo sul quale Salvini reclama qualche diritto, di quelli che piacciono a lui: possesso, prevaricazione, intimidazione, ricatto, diventati sistema di governo, qualsiasi sia la coalizione.