capanamurAnna Lombroso per il Simplicissimus

Tensioni e conflitti si risolvono «con il dialogo» e «il rispetto delle identità». Respingere i migranti è «guerra, significa uccidere». Così Papa Francesco, ricordando che respingere chi lascia la propria terra via mare in cerca di una vita dignitosa è un atto criminoso: «Questo si chiama violenza»,

“Piazzisti da quattro soldi che pur di prendere voti, di raccattare voti, dicono cose straordinariamente insulse!”. Il segretario generale della Cei (Conferenza episcopale italiana), Nunzio Galantino,  definisce così i leader politici che in questi giorni hanno affermato la necessità di più efficaci  restrizioni all’ingresso in Italia di nuovi immigrati e profughi.

Inveterati baciapile, democristiani di ritorno ben collocati sotto l’ombrello ospitale del Pd, neofascisti e arcaici fascistelli folgorati da aneliti di autonomia ideologica hanno criticato l’ingerenza della chiesa sul tema dei profughi, come se fosse una sorpresa riservata da un papa popolare quanto anticonformista, come se fosse una novità rispetto a secoli di invadenza e condizionamenti esercitati imponendo una morale confessionale e di parte promossa ad etica pubblica, grazie al sostegno di poteri feudali, ceti dirigenti, classi politiche.

Personalmente i moniti papali non mi colpiscono. Perché non sono cattolica, perché sono agnostica, perché sono laica, perché sono una cittadina che paga le tasse e pretendo che le soluzioni a quella che insieme alla pioggia, alla corruzione, alla disoccupazione, viene definita – e sappiamo perché – l’emergenza immigrazione, debbano essere politiche, democratiche, pubbliche e statali, mentre come succede in tutti questi casi sono delegate a poteri “occulti”, a organismi opachi, a speculatori e a profittatori particolarmente infami.

Mentre invece sono ragionevolmente rivolti a chi fa dell’appartenenza  alla comunità dei fedeli un certificato di garanzia del rispetto delle convenzioni, una patente di probità irrinunciabile in campagne elettorali perenni, un marchio di “conformismo” necessario a assicurare l’adesione ai dogmi della normalità per chi teme l’impopolarità di inclinazioni e comportamenti irrituali, una manifesta dichiarazione di accettazione di una morale comune, espressa palesando virtù pubbliche e celando vizi privati, o, peggio ancora, convertendo  trasgressioni, costumi e pratiche eterodosse quando non illecite e illegali, in innocenti evasioni, in cene eleganti, in inevitabili cedimenti a pragmatiche necessità politiche, economiche, mondane, tutti peccati che si possono lavare  partecipando a una messa domenicale, facendosi immortalare con la famiglia regolare quindi sacra, presenziando a eventi che quella famiglia la celebrano, dichiarando fuori legge e fuori dalla norma qualsiasi altro vincolo sia pure basato su amore,  sostegno reciproco , affetto, intesa su progetti comuni. Sono gli stessi che preferiscono la visibilità alla reputazione, la beneficenza alla solidarietà, l’ora di religione a quella di educazione civica, e quindi, per estensione, le scuole private all’istruzione pubblica, le cliniche agli ospedali, le onlus e qualche cooperativa particolarmente profittevole all’impegno dello stato e delle sue istituzioni per garantire il rispetto della Costituzione e dei suoi principi per tutti, italiani o ospiti sul nostro suolo.

E sono sempre loro che presenti in parlamento e al governo in passato e contigui oggi, hanno potuto suscitare in una collettività che soffre di un diffuso senso di perdita: di beni, di sicurezza, di garanzie, di diritti, di lavoro, di prospettive, un rancore, una diffidenza, una paura fino all’odio nei confronti dell’oggetto più facile e riconoscibile, lo straniero, il diverso. Sono quelli che hanno operato una poderosa distrazione generalizzata dalle ragioni e dai responsabili interni del nostro malessere dirottandolo verso la minaccia esterna, il pericolo che viene da fuori e usurpa, sottrae, ruba, viola leggi e usanze, allenandoci alla tolleranza dei loro furti, dei loro delitti, delle loro incompetenze, delle loro bugie, ma esortandoci all’intolleranza di chi ha un altro colore, parla altre lingue, mangia altri cibi, venera altri dei.

E sono quelli i generali di una guerra con le sue fosse comuni nel Mediterraneo, con la sua tortuosa semantica puntigliosa che dovrebbe farci distinguere  tra rifugiati, profughi, immigrati, clandestini, irregolari come se non fossero tutti disperati che fuggono da missioni esportatrici di democrazia, da spedizioni punitive a scopo commerciale, da antiche e nuove lotte intestine armate con i nostri fucili, da povertà suscitate da razzie, saccheggi, predazioni di ricchezze,  risorse, territori condotti in nome e per conto della nostra civiltà. Come se fossero state scritte delle gerarchie della disperazione: al primo posto chi fugge dalla guerra, poi dalle catastrofi naturali, poi dalla fame e dalla sete, infine dalla mancanza di futuro e come se tutte queste orrende, tremende cause non ci avessero mai riguardato e non potessero mai più riguardarci. Come se respingendoli, confinandoli, accatastandoli a Calais, a Ventimiglia, mettendogli davanti il lungo muro d’odio dell’Ungheria o rendendoli visibili, e quindi oggetto di ostilità sempre più  diffusa, sulle nostre panchine, nelle nostre stazioni, nei nostri giardinetti, persuadessimo loro e tanti altri che è meglio restare sulla propria terra, non esporsi alla nostra “legittima” inimicizia. Come se la scelta europea, facciamone naufragare qualcuno così gli altri desistono, non somigliasse alla lezione impartita ai greci per dissuadere altre ribellioni, altri referendum, altri sussulti di democrazia. Come se la soluzione politica non fosse che stabilire una volta per tutte il nuovo dogma, che nessuno li vuole, che nessuno se li deve prendere in carico, che non hanno diritti umani né là da dove vengono né ovunque vadano, che sono comunque oggetto di rifiuto, quandi rifiuti, sopportabili se affondano, se stanno nascosti a cucire pantaloni, a fare la raccolta della frutta sotto il sole cocente, a arrampicarsi sulle impalcature senza protezione, inammissibili se si vedono, se ci sfiorano, se pretendono per il solo fatto di essere rimasti in vita dopo odissee e naufragi.

Mai avrei pensato di essere annoverata tra i “buonisti” insieme a un papa. E mai avrei pensato che i cattivisti riuscissero dopo un secolo troppo lungo segnato da due guerre mondiali e dalle più cruente manifestazioni di violenza, discriminazione, a legittimare il razzismo come pragmatica esigenza di soluzioni, magari finali, come doverosa difesa di interessi nazionali, come strumento indispensabile  di classificazione doverosa e ragionevole graduatoria di bisogni, diritti, prerogative da erogare preliminarmente se non unicamente ai nativi. O che fosse così facile alimentare la grande menzogna. Sono troppi: la Lombardia ospita nei centri di accoglienza (o in altre strutture temporanee) 60 profughi ogni 100 mila abitanti, il Veneto 50, la Liguria 80, la Valle d’Aosta 50. Mentre  la Sicilia, prima in valore assoluto, ha nei centri di accoglienza 270 profughi ogni 100 mila abitanti, la Calabria 240, il Lazio 140. Si piazzano qui da noi e ci sottraggono beni e servizi: l’Italia è più facilmente raggiungibile, ma è evidente perfino a Salvini che le destinazioni desiderate sono altre e il nostro Paese è un passaggio sempre meno gradito. Arrivano qui e ammazzano, rubano, si mettono al servizio della malavita: è l’Italia che affronta il pro­blema consegnadoli a mala­vita, mafia e mal­go­verno, gli stru­menti tra­di­zio­nali di gestione di tutte le emer­genze vere o inven­tate: Expò, Mose, rifiuti, ter­re­moti, allu­vioni, ele­zioni, sanità, lavoro nero, in questo caso con il “valore” aggiunto di    sfrut­ta­mento, umi­lia­zione e degrado di chi arriva e di malcontento, ribellione, richiesta di poteri forti e repressione  nelle popolazioni locali.

Il fatto è che le soluzioni, difficili, ardue, impervie, ci sarebbero. Ma come si diceva una volta, manca la volontà politica, anche per via della rinuncia, interpretata come necessaria, a immaginare modelli di vita, civiltà e cittadinanza “altri” da quelli degradati che ci vengono imposti come inevitabili e doverosi: corridoi umanitari, finanziamento degli interventi di ricerca e soccorso lungo le coste europee ma anche in mare aperto come faceva l’operazione Mare nostrum, e dovrebbe fare l’operazione Triton; revisione degli accordi di Dublino; rinegoziazione in Europa dei vincoli di bilancio per i Paesi, Italia e Grecia, dove si registrano gli arrivi di massa e dove l’omissione di soccorso è un crimine che deve pesare sulle coscienze del mondo.  Certo prima di ogni altro  atto, prima di ogni altra misura bisognerebbe imporre la pace, quella cancellata  da guerre, occupazioni, devastazioni e contese per accaparrarsi risorse delle quali  l’Europa è stata complice,  partecipe o tollerante. Ma ormai la salvezza della ragione, dell’umanità, della democrazia è confinata al regno di Utopia.