Anna Lombroso per il Simplicissimus
Son tutte belle le mamme del mondo e nel nostro caso sono una gloria nazionale oltre che musicale. Se ne ricorda l’alta carica nel rispondere alla collera di una donna di Taranto: da padre, è vibrantemente vicino alle madri e ai genitori preoccupati per il futuro dei figli.
Deve essere la nuova frontiera – o antica – delle privatizzazioni, attribuire ai genitori il monopolio personale e individuale della cura ed anche dell’apprensione per un domani che anziché un’aspettativa si è ridotto a fosca minaccia, riducendo i contenuti e i principi della cittadinanza a onere domestico e familiare.
E d’altra parte proprio ieri il Censis ha riproposto tutta la retorica amata da tutti i governi, quella rassicurante paccottiglia di famiglie combinatorie, fondamentali sani, welfare domestico, formiche versus cicale, valori tribali e virtù cristiane, secondo quella compassionevole scienza sociologica al servizio di quella ideologia raffazzonata e miserabile, che permette come unico diritto quello di difendere la sopravvivenza del proprio clan. Nell’avvicendarsi di governi che consigliano alle ragazze di arpionare un milionario o che additano al pubblico ludibrio mamme protettive per impiegarle utilmente come scialuppe di salvataggio o che propongono il ricorso al rifiuto delle regole e alle scorciatoie, alla sopraffazione e alla mercificazione di corpi e intelletti, per poi condannare a una contegnosa accettazione del sopruso, del ricatto, della precarietà, le vituperate famiglie restano l’unico cantiere ancora aperto della socialità, miserella, umiliata, impaurita, che si vende l’oro, che riduce le ambiziose visioni di un riscatto delle nuove generazioni al “posticino” sicuro, che sostituisce al figlio professore di Aldo Fabrizi, il figlio tecnico, che resta in casa grazie a un circuito minimalista di solidarietà coatta, memoria superstite di patti generazionali offesi e spezzati.
Una volta ci si lamentava che le famiglie non fossero incoraggiate a sviluppare un rapporto equilibrato tra di esse, la società civile e lo stato, che per i nuclei domestici “si impiegassero energia, coraggio, impegno, tanti che ne restava poco per la società e lo Stato”. Oggi le si sollecita a fare il contrario, a esaltare quell’arte di arrangiarsi egoistica e solipsistica, perché una gente chiusa, sempre sulla difensiva, isolata è più permeabile a soluzioni autoritarie, privatistiche, sostitutive delle garanzie e dei diritti che dovrebbero essere assicurati dal sistema dei servizi sociali.
Famiglie chiuse in un recinto autarchico e auto difensivo “sono disposte a vendere l’oro di famiglia per arrivare a fine mese, a lasciare la macchina per andare in bicicletta, a coltivare l’orto piuttosto che subire i rincari del supermercato. Gli italiani ce la stanno mettendo tutta, vogliono sopravvivere alla crisi, dice il Censis. “E così «risparmiano, rinunciano, rinviano, sempre più soli, sempre più distanti dalla politica. È un’Italia «separata in casa»: da una parte ci sono l’«ordine» e il «rigore» del governo, dall’altra le strategie messe in atto dalla società e dalle aziende: «restanza» del passato (neologismo che sta per valorizzare ciò che resta funzionante dal tradizionale modello di sviluppo), «personalizzazione» e «riposizionamento»”.
L’immaginifico De Rita trascura di rilevare che non si tratta di una indole autogena, ma di una tendenza artatamente alimentata, e sarebbe esagerato e inappropriato dire che è dettata da una ideologia, che ormai governi e ceto politico procedono come nella parabola dei ciechi, a tentoni, con l’unica stella polare, quella dell’avidità di profitto e della smania di conservazione di privilegi e rendite di posizione, da condividere con affini.
Leggi e misure improntate alla personalizzazione confermano l’insostituibilità diffusa e generalizzata della “licenza”, la legittimità difensiva delle scorciatoie, la liceità di familismo e clientelismo, che contribuiscono a conferire all’illegalità il carattere di sistema, inevitabile, permessa e tollerata fino a diventare norma. Che familismo e clientelismo sono strettamente collegati, propedeutico l’uno all’altro: non si tratta di categorie residuali, retaggio di una società tradizionale, piuttosto elementi che si rinnovano continuamente come caratteristiche negative delle moderne relazioni sociali. Se permangono l’aspettativa diffusa e la convinzione generale che per avere un’occupazione, un permesso, un appalto, una visita medica urgente, per addomesticare un controllo o accelerare un pagamento, occorra un aggancio, un patrocinatore, una mazzetta, allora questa regola di comportamento diventa un modello e un sistema, che ispira e condiziona tutti i comportamenti.
Questione morale e questione democratica si intrecciano: i valori sociali che vengono coltivati non sono quelli civici, di cittadinanza, di partecipazione e di trasparenza, ma quelli della sottomissione, della deferente riconoscenza, dello scambio di favori e della fidelizzazione, quelli cioè, che animano tutto il ceto governativo, che non si saprebbe scegliere il peggio tra tycoon o tecnici, tra le tipologie di conflitto di interesse, tra corpi in vendita e offerta libera di intelletti, sempre più pavidi, intimoriti, asserviti.
«Sopravvivremo anche ai probabili e/o improbabili governi del prossimo futuro. Ma perché dobbiamo sopportare governi in cui tutti vogliono governare, ma nessuno è d’aiuto al nostro stress di sopravvivenza? Forse è ora di trovare un modo di governare che si connetta ai processi reali, in una nuova sperimentazione di unità di governo e popolo», chiosa Giuseppe De Rita. La sua è proprio un’utopia, o forse una distopia, quella di un’alleanza improbabile tra entità opposte una delle quali ha dichiarato guerra ostentatamente all’altra: lavoratori, cittadini, donne, uomini, giovani, vecchi, sani, malati, disoccupati, precari. Non ci interessa una magra sopravvivenza, ci interessa la vita e vogliamo riprendercela, siamo realisti: vogliamo la felicità.
Reblogged this on barbatustirolese.
Ci dominano con la paura e con il trasmetterci il cupo presentimento che se non si esegue quello che ci impongono potremmo stare anche peggio; perseguono l’obbiettivo di sottometterci instillando sempre più profondamente la paura e la diffidenza dell’altro che diventa nemico e causa delle nostre condizioni negative, dei nostri disagi, del troppo poco che riusciamo ancora ad avere. Eppure è proprio vero, Anna, se spezziamo la solitudine potremmo realizzare il risveglio. Grazie!
si Angelo è proprio così, si chiamano gli untori a curare la peste. Ma è che spesso dimentichiamo la pressione della chiesa, dell’imposizione di un’etica pubblica ricalcata sulla morale cattolica, che contribuisce a far accettare l’aspetto penitenziale del rigore, pena obbligata per aver peccato di sovra-benessere..
ma lo scriva..la scrittura è rimasto un formidabile spazio di libertà.. sa la solitudine dei lavoratori, dei cittadini rappresenta davvero l’aspetto più tremendo della fine della coesione e dell’eclissi democratica.. ma magari anche quello che risveglierà quela che chiamiamo società civile
Si intravedono uscire dai botteghini, tra bilancette (chissà se contraffatte), monoculari, reagenti e calamite. Il bracciale della mamma, il collierino della nonna, la vera, il ciondolo, qualche cucchiaino d’argento. Poi, con passo pesante ed espressione torva, entrano chi in banca a pagare qualche rateo, chi nell’Ufficio Postale per le bollette inesorabili. Qualcuno/a entra dal tabaccaio, acquista dei “Gratta&Perdi”, o il Lotto, o al bar davanti alle slot, o all’Agenzia Scommesse dove magari il ManCity lo danno a 10 se perde la gara interna col Sunderland. Poi qualche spicciolo per ricaricare il cellulare e via all’hard discount, qualche precotto per la cena forse con 2,99 euro si rimedia.
De Rita, omomaturgo annuale da parrocchietta, la chiama “restanza” del passato (leggi: arte d’arrangiarsi). Ma ci si arrangiava, noi italiani, una volta, con fisso il sole fulgido che si chiamava Speranza. Ecco cosa imputiamo ai governanti nostrani in combutta con politici inani e incapaci: d’esser stati killer spietati della parola Speranza (la Hoffnung di Erst Bloch). Qualcuno, a difesa della propria ricchezza indebitamente accumulata, ci propina da anni il sermoncino: “siamo (siete) vissuti al di sopra delle nostre/vostre possibilità”, e glielo vomitano in faccia impudentemente a persone che non hanno mai goduto del colo del grasso su cui i loro otri capientissimi si sono impinguati. Così l’austerity, faccia clericale dell’ideologia capitalistico-liberista, si insinua nella nostra stessa epidermide e non la riconosciamo più come il cancro da estirpare, ma si presenta come il farmaco per curare.
Siate utopisti, pensate l’impensabile!
E’ tempo che medito di scrivere un articolo sul fenomeno compro oro. Credo che lei abbia evidenziato molti elementi centrali, in primis questi espedienti che vengono messi in atto per tirare a campare e la solitudine in cui ci si muove e che favorisce sempre quelle persone che possono vantare una rete di riferimento capace di farle passare avanti alle altre, in maniera spesso poco cristallina. I compro oro dal canto loro hanno saputo intercettare queste nuove povertà. Fa strano vedere come le persone siano disposte a vendere l’oro, specie se ne consideriamo il valore simbolico (spesso sono oggetti donati in quelle cerimonie come battesimi, comunioni, matrimoni… dunque rappresentano il precipitato materiale in un certo senso di determinati legami sociali). C’è anche da considerare che l’oro ha perso molto del suo prestigio (una volta poteva avere un senso indossarlo/esporlo, un senso in termini di prestigio sociale) adesso questa funzione non la svolge più, mentre sono i dispositivi elettronici come cellulari o pc (non meno costosi ma molto meno duraturi nel tempo) i nuovi oggetti-segno. Nell’articolo che avrei voluto scrivere avrei fatto un parallelo con la giornata dell’oro alla patria…ragionando su questi due fenomeni, uno, quello fascista, così pomposo e teatrale, l’altro, quello odierno, silenzioso, privato, quasi nascosto… Chissà magari lo scrivo lo stesso…Grazie mille e complimenti.