Anna Lombroso per il Simplicissimus

Si sa che uno dei vizi della nostra autobiografia nazionale è rappresentato dall’ipocrisia che qualcuno h definito il più socievole degli atteggiamenti perché aiuterebbe la buona manutenzione delle relazioni all’interno del consorzio civile.

Oggi ad esempio si celebra in morte uno dei più fulgidi esempi di divino ipocrita, un giornalista che ha percorso in forma accelerata il tragitto per diventare venerato maestro, maestro di vita e di pensiero ad onta dei suoi innumerevoli cedimenti al potere dominante in tutte le sue forme, a cominciare dall’entusiasmo con il quel vestì e decantò la divisa da balilla sfilando  estatico sotto il balcone di Piazza Venezia.

Anche lui e ben prima di relazionarsi direttamente e alla pari con Dio aggirando la invadente mediazione del papa, ha esercitato quella moralona ben definita da Gadda che permette attraverso l’obbedienza a criteri arbitrari stabiliti dalla convenzioni, di distinguere e discernere tra Bene e Male senza far ricorso a principi etici, bensì a requisiti di opportunità, appartenenza, interesse personale o di cerchia, grazie a una buona combinazione di elegante cinismo, di legittimo disincanto, di sofisticato scetticismo.

Le lezioni di questo ceto di statue equestri sempre in sella, hanno fatto scuola, dando spazio a dei gran cattivi che ritengono così di sfidare le leggi del perbenismo, del conformismo baciapile, sferzando plebi immeritevoli per persuaderle a raggiungere l’insperato obiettivo di imitarli, di entrare nel club esclusivo pagando poco più di un euro in edicola e confermando la proprio adesione con l’acquisto dei loro instant book, memoriali, strenne, senza però mai raggiungere le profondità feroci e apocalittiche di Cioran e dei tragici pessimisti, perché stare ben collocati nel sistema è un privilegio irrinunciabile.

Questo spazio di cattiveria schizzinosa, non so se ci avete fatto caso, è occupato soprattutto da penne in quota rosa, che ne approfittano per demolire – ma solo in superficie – molesti stereotipi di genere riferibili a qualità muliebri di resa, sacrificio, abnegazione, intento lodevole ma per lo più bagaglio culturale di segmenti di pubblico che ha avuto gioco facile a sfondare il tetto di cristallo per nascita, rendita, appartenenza o fidelizzazione, che hanno imparato che è opportuno accoppiare l’approvazione per l’ideologia dominante con la critica ai difetti e ai vizi del popolo inevitabilmente colpevole e corrreo di ogni suo male, attraverso la provocazione, il dileggio, la derisione.

Sono quindi esclusi i potenti vigenti, il presidente di adesso più consono di quello di un tempo perché limita il ricorso al barzellettiere dei bancari evitando pruriginose allusioni. E  perché un golpista grigio e anodino protetto da opache autorità straniere è più sopportabile di un puttaniere ridicolizzato dalle personalità carolinge, il freddo e enigmatico commissario liquidatore che però si intrattiene gioviale con varie tipologie di macellai, di bovini o di curdi.

E se qualcuno si deve pur dissacrare allora il bersaglio è meglio che sia qualche baciato più o meno giustamente o meritatamente dal fato, goleador o stellina, pibe de oro o velina, come ha deciso di fare Natalia Aspesi nel commentare con augusta acidità un divorzio già famoso prima di consumarsi.

Qual è la tesi dell’aspirante Cederna che non ha mai saputo uscire dai limiti angusti del “costume” per sconfinare della politica magari anche maldestramente? E d’altra parte appunto per nascita anche lei è stata una benedetta da fato, non avendo alle spalle una famiglia con babbo che usciva a ora fissa dagli Omenoni per il rito del risotto, con la sartina Bice in casa a sistemare i sobri paletot della ragazze, con il doposcala da Biffi e i costumi frugali come nelle tetre case di Lubecca.

Macchè, lei è stata una ragazza da ringhiera, coi cappotti rivoltati, spuntino in latteria o pranzo nella schiscetta, babbo morigerato lavoratore che ha protetto la famiglia dai disagi tanto da far ammettere una novantina di anni dopo alla tosa assurta a fulgida carriera di non essersi accorta o quasi di guerra e persecuzioni.

È che anche i ricchi piangono, che infine davanti ai piccoli e grandi drammi della vita siamo tutti uguali, che chi ha avuto culo con una affermazione insperata poi si merita di tornare al suo posto non potendo vantare lombi illustri o protezioni eccellenti.

C’è un voluttuoso godimento nel gioire della separazione delle due star mediatiche e nel compianto die fan, quello un bel po’ acido e accidioso di chi, a differenza di Winslawa Szimborska, non di dà pace all’idea che tra tanti torti, ingiustizie, oltraggi, i poveracci come noi possano essere benedetti da un amore felice, che non si vergogna di esistere in natura, che ripara momentaneamente chi lo vive dal dolore, dall’umiliazione.

E almeno lo dissimulassero, quel complotto, quello scandalo con tutta evidenza interdetto a chi non possiede quel minimo di speranza, passione, prodigalità di sé che ostacola brillanti carriere ma dona altri beni e privilegi.

Non so nulla dei due divorziandi, va a sapere se hanno fatto parte della cospirazione amorosa, è facile intuire invece che il livoroso compiacimento della  maîtresse à penser non risponde a un moto emozionale, a un risentito sentimento di invidia di una venerabile infastidita dall’altrui successo e giovinezza, ma a una precisa convinzione di carattere ideologico che decide che ognuno deve restare al suo posto, che l’unico esito di uguaglianza raggiungibile se non si è ben collocati delle geografie del privilegio, nei delfinari reali e nelle stanze a ridosso del potere sono il dolore, la rinuncia a dignità e aspettative, la disillusione che insegna che non c’è alternativa praticabile se non la cessione di sogni, desideri, auspici e speranze, quelle che qualcuno annovera tra le passioni triste perché ostacolano la legittima collera facendo riporre attese in qualche divinità, potere esterno, magia che ci salvi dalla rovina.

Ha proprio ragione Hannah Arendt, potrebbe essere la rivolta contro l’ipocrisia la molla per trasformare i consapevoli in arrabbiati, quando quelli che ogni giorno compiono un crimine contro di noi, lo fanno precedere “da qualche bel discorso sul bene comune e la pubblica utilità (E’. de la Boétie)”.