Anna Lombroso per il Simplicissimus

C’è stato un tempo nel quale la Lega fu oggetto di considerazione e perfino emulazione, suscitando l’ammirazione di D’Alema e di Cacciari ( pensate quanto mi costa solidarizzare con lui in questi giorni), in quanto “costola della sinistra” di chiara matrice antifascista.

Poi l’invidia indispettita per il radicamento territoriale ebbe il sopravvento e i rituali dei padani con l’elmo con le corna, le folle plaudenti il berciare dei dirigenti vennero liquidati come indecente analfabetismo militante, che non poteva non suscitare il ribrezzo di un ceto progressista e europeista,  che rivendicava la sua superiorità sociale e culturale rispetto ai primitivi e rozzi messaggi dei nuovi barbari, colpevoli di maleducazione, ignoranza rivendicata come qualità indispensabile per garantire la vicinanza col popolo, contiguità con la destra estrema altrettanto scostumata.

Per anni queste accuse, ben più del furto dei 49 milioni consumato con destrezza dalla loro èlite che intanto occupava governi regionali nei quali soggiorna indisturbata, sono state il fulcro della battaglia politica di chi si giovava della becera grossolanità dei buzzurri come incarnazione moderna del fascismo del secolo breve, cui doveva opporsi la versione pret à porter dell’antifascismo politicamente corretto, quello che ogni dava in concessione slogan, parole d’ordine, battaglie della sinistra antagonista ormai sfinita al pensiero mainstream.

Che bei momenti, bastava pubblicare sui social  le accuse ai social di Eco, bastava mettere una foto di Lucano per sul profilo per essere contro il razzismo e la xenofobia, bastava fare copiaincolla dei pensierini di Greta per esercitare l’ambientalismo dei giardinieri, insomma ci voleva poco a costruirsi la falsa coscienza  secondo le regole del cinismo progressista, cosmopolita, riformista, politicamente corretto, che dispone dei misuratori morali che distinguono il Bene dal Male e decidono fino a dove si possa imporre quello che fino a poco tempo fa si considerava incompatibile con la democrazia.

C’era un però, il ceto che rivendicava la sua superiorità etica e sociale non aveva un gran seguito, e non solo elettoralmente, vinceva ai Parioli, è vero, ma era minacciato dal populismo e del sovranismo, acrobazie sociologiche per definire il malcontento delle vittime delle politiche di austerità obbligate dallo stato di necessità. Occorreva allargare il consenso di base in modo da rafforzare i vertici commissariali scelti tra tecnici e “competenti”, osannati per la loro impermeabilità ai mali della bassa politica, con la quale avrebbero saputo negoziare da una posizione di inviolata superiorità per il bene comune secondo le regole della realpolitik.

Sospetto che sia nata là la legittimazione dell’analfabetismo militante al servizio delle autorità. Le prime avvisaglie le abbiamo viste sui social, quando spopolavano i profili dei laureati all’università della strada, in concorso con la demolizione dell’istruzione pubblica e l’esaltazione delle università private, Luiss, Bocconi, fucine delle future classi dirigenti insieme a goderecci Erasmus, alla denigrazione dei superflui studi umanistici che non mettono nelle mani dei giovani la indispensabile cassetta degli attrezzi per affermarsi, all’adorazione per leadership occupate da ex studenti svogliati che così dimostrano che chiunque può far carriera come in un film di Frank Capra, e meglio se non ha imparato niente e non sa fare nulla a dimostrazione di un personale eclettismo.

E poi via via è cresciuto l’entusiasmo per icone malamente “diplomate” alle medie, per personalità il cui vanto consiste in bocciature e abbandono scolastico, per americanisti che non spiccicano una parola di inglese e giornalisti e scrittori, ne cito uno, tal Cundari, che si pavoneggia “bocciato due volte al liceo, non ho dato miglior prova all’università”, tutti orgogliosi di poter dichiarare di avercela fatta e di rappresentare un modello di successo, per non aver dovuto sottostare all’imperio di una cultura classista che impone il foglio di carta.

Ovviamente non si parla qui di minatori la cui unica occasione di riscatto erano le lezioni del Maestro Manzi o Radio Elettra o le scuole serali, ma di appartenenti a un ceto provvisto dei mezzi per accedere agli sudi anche quando un susseguirsi di “riforme” progressiste hanno intriso l’istruzione dei valori dell’aziendalismo, del marketing, della meritocrazia a carico delle famiglie.

Il vigore con cui si è promosso questo processo di analfabetizzazione combinato con la delegittimazione della cultura (ne ho scritto ieri qui: https://ilsimplicissimus2.com/2021/12/05/i-sequestratori-della-conoscenza-157449/) ha delle motivazioni evidenti, la prima delle quali consiste nell’omologazione in basso secondo i criteri di una uguaglianza ispirata alla mediocrità, in modo che eccella una scrematura di “competenti” specializzati incaricate di dare la linea, di consacrare e convertire in dogmi conoscenze in favore del sistema dominante. Non è estranea la concezione di una pedagogia, e di una didattica, che si uniformi necessariamente a finalità utilitaristiche, in nome di uno “sviluppo” che considera superfluo, quando non pericoloso, il dubbio, che colloca la critica tra gli ostacoli che impediscono l’iniziativa e l’imprenditorialità.

Ma soprattutto, si traccia così un discrimine, si produce una frattura insanabile tra la massa, infantile, indolente, immatura, e una oligarchia che generosamente assume un ruolo guida in tutti i campo, politico, sociale, culturale, dottrinale e morale, esercitando un potere esclusivo di influenza e persuasione, che, allorché venga minacciato o messo in discussione, giustifica censura, repressione, criminalizzazione del pensiero e dell’azione antagonista, come della controinformazione che osa dubitare, che porta dati “altri”, che ha l’ardire di opporre ragione e consapevolezza alla soggezione, al servilismo e alla resa incondizionata.