Anna Lombroso per il Simplicissimus

Pensa e ripensa poi d’un tratto ho capito che cosa mi evocava la folla (centomila per la Questura, 200 mila per Molinari, un milione per Letta) convocata dalla Cgil ieri, composta e decorativa, con tutti quei palloncini azzurri e rare pennellate di color rosso. Mi ricordava un Family day, una bella piazza democristiana.

Eh si, una piazza ordinata, non c’è che dire, narcotizzata dal discorso del suo leader che più democristiano di così non si può, un bel po’ al di sotto della concertazione della Cisl di un tempo che qualche brivido di combattività lo diede ai suoi tesserati, la predica di uno che implora invece di esigere, che auspica invece di pretendere, che chiede educatamente, invece di gridare per i diritti dei lavoratori, le riforme.

E qua c’è da preoccuparsi perché le riforme secondo qualcuno che ha nostalgia della cinghia di trasmissione e la vorrebbe coi progressisti del Pd, non sono quelle del centro sinistra, macchè: non sono la nazionalizzazione della Sade, ma la buonuscita alla dinastia criminale di Atlantia o la strategia di caricare su di noi i debiti di imprese fallimentare secondo la regola che autorizza la privatizzazione die profitti e la collettivizzazione dei debiti.

Le loro “riforme” sono il Jobs Act al posto dello Statuto dei lavoratori, la Buona scuola, la legge Fornero, le semplificazioni per riscattare la libera iniziativa da lacci e lacciuoli e complicare la vita dei cittadini, la revisione del sistema di appalti per avviare i cantieri  delle grandi opere del malaffare al posto della manutenzione quotidiana per la salvaguardia del territorio.

Occupato dalla vertenza sull’accesso alle mense, il segretario della Cgil ha pensato di dover soprassedere sulle richieste della “revisione” del sistema degli ammortizzatori sociali che avrebbe dovuto coincidere con lo sblocco dei licenziamenti e anche di mostrarsi più docile sul fronte del reddito di cittadinanza sopportato senza entusiasmo solo perchè permette di distrarre dall’obiettivo del salario minimo garantito, relegato tra le tristi utopie del Novecento.

Tra i sodali in piazza mancava solo Mario lo sfasciademocrazie, che ormai viene da immaginare allacciato a Maurizio al suono della loro canzone, Bella Ciao, in versione 78 giri come si addice a una celebrazione nostalgica quanto gli obiettivi dell’antifascismo neoliberista di governo, che permette le incursioni della teppaglia che fa strage di seggiole e scrivanie, impegnato a contrastare l’unica violenza non autorizzata, quella della collera di classe.

Intanto qualche sacca di resistenza al governo, perché questo è il senso vero delle proteste dei lavoratori contro il Green Pass, del quale è ormai evidente la funzione discriminatrice in veste di profilassi contro opposizione e critica e in previsione di estendere sorveglianza, controlli e restrizioni a ogni manifestazione di dissenso e di difesa dei diritti, salvo quello a essere medicalizzati vita natural durante, ma senza assistenza pubblica, senza  cure sostituite da prodotti iniettabili ripetutamente, sta cedendo sotto la pressione del ricatto.

Non c’è da stupirsi, è un’abitudine del sindacato e dei difensori della classe operaia dalle scrivanie, dalle aule accademiche, dai workshop, lasciare solo chi lotta per il lavoro: è successo con quelli della Fiat, dimenticati dall’ex leader della Fiom ancora prima del salto di carriera, è successo durante anni di delocalizzazioni scoperte dalle maestranze la mattina dopo il trasloco quando trovavano la fabbrica spoglia e deserta, è successo con quelli della Gkn, è successo con la Whirlpool. Hanno abbandonato  e tradito  le tute blu, target privilegiato, ma hanno lasciato soli i precari, le false partite Iva dei contratti anomali, il cottimo del part time, i rider di Glovo, gli amazonizzati che fanno la pipì nelle bottiglie della minerale.

Verrebbe da sorridere quando una delle accuse mosse a chi manifesta contro il vaccino e il green pass è di essere codardi, di aver talmente paura di una, due, tre punturine, da mettere a repentaglio la paga. E difatti una delle tante colpe del ceto politico della “cultura di impresa”, dell’informazione, è di averci retrocessi alla condizione descritta da Longanesi, popolino che ha come slogan “tengo famiglia”, autorizzato moralmente a cedere ai ricatti e alla intimidazioni in quanto maggioranza numerica, legale quindi ma non necessariamente legittima.

A contribuire a questa regressione è la concessione elargita anche dai filosofi che firmano i manifesti della razza padrona,  ad aver paura, sentimento e emozione promossa a virtù civica ancor prima del Covid quando un ministro Pd l’ha sdoganata come ragionevole reazione alle invasioni di “diversi”, come comprensibile diffidenza difensiva. La narrazione pandemica ne ha fatto uno strumento di rafforzamento dell’emergenza ma anche collante per ritrovare uno spirito unitario, garantito da misure che prevedevano la delazione per isolare chi si sottraeva al rispetto delle leggi.

Pensatori, opinionisti, decisori hanno fatto a gara per dimostrarci la bontà della paura che aiuta il principio di precauzione, l’impiego del bric à brac  profilattico, la vaccinazione di massa, la rimozione del dubbio da sostituire con la delega in bianco a “chi sa”.

La paura è riconosciuta e favorita, l’abbiamo scoperto recentemente, anche tra le forze dell’ordine chiamate a farne uso insieme al buonsenso per non alimentare violenze teppiste, mentre invece non è stata autorizzata a milioni di essenziali che hanno sfidato per mesi la Pestilenza  senza norme e requisiti di sicurezza, a far sospettare che anche quella abbia un connotato di classe, che ne regola l’impiego solo per certe categorie mentre alle altre spetta l’abnegazione fino al martirio.

Certo, parlo di paura fisica, di vigliaccheria riconosciuta a norma di legge e contrassegnata con il patentino verde che distingue la maggioranza molto loquace da una minoranza che deve essere ridotta al silenzio, che fa salire di graduatoria la rinuncia alla dignità, la sottomissione ai ricatti, il pizzo al racket come scorciatoia per guadagnarsi le libertà erogate come  generose concessioni a pagamento.

È così che il coraggio della fedeltà a se stessi,  dell’esercizio del libero arbitrio, per i diritti per i quali sono morti i partigiani, sta diventando un pericolo per la stabilità, un rischio per la governabilità, un attentato contro  l’ordine stabilito.