Anna Lombroso per il Simplicissimus

Si parla qui della mitomania, quella tendenza ad accettare come realtà i prodotti della propria fantasia e a raccontarli come veri allo scopo di attirare su di sé l’attenzione altrui e soddisfare così la propria vanità.

Succede così che quelli che per via del loro ruolo sono condannati a raccontare balle, finiscano poi per convincersene, tanto che se li smascheri ci restano male, si offendono per la tua sfiducia che mette in dubbio l’onestà dei loro intenti.

Uno dei più famigerati è il ministro Franceschini, il più inossidabile,  inamovibile e peggior titolare del dicastero della cultura degli ultimi 150 anni per usare una formula cara al cavaliere i cui ministri titolar del Mibact da Bondi a  Urbani, da Ornaghi a Buttiglione non erano poi, visti a posteriori,  peggiori di lui.

Possiamo immaginare che a forza di ripetere il coglionario  di stereotipi “l’arte e in paesaggio sono il nostro petrolio”, o “non abbiamo bisogno di miniere o pozzi  perché  sono i beni comuni, arte e paesaggio, i nostri giacimenti”, sfoderati  grazie alla  ridondante retorica che da anni aiuta la commercializzazione di arte, paesaggio memoria, se ne sia persuaso e ne abbiamo la conferma con una recente esternazione:   «La cultura riparte grazie al Recovery»., che fa capire che ha digerito l’esclusione dalla famosa cabina di regia del Next Generation Ue, accontentandosi di qualche croccantino.

Il fatto è che come tutti gli aderenti alla cerchia dei clerici  prestatisi alla tecnocrazia, non ha le idee chiare, confonde Cultura e cultura d’impresa anche quella dei Riva, della Marcegaglia, dei De benedetti e dei finanzieri che hanno sfilato alla Leopolda o ai simposi di Repubblica e che si riscattano da diplomi conseguiti faticosamente o conquistati in Albania, grazie a qualche sponsorizzazione, o affittando un sito archeologico per le convention aziendali.

Anche lui pensa davvero, ma non è certo il primo, che i beni culturali siano un bene troppo prezioso per lasciarlo in mani pubbliche, che bisogna puntare sull’affaccendata e dinamica  generosità dei privati, convinto come il suo ex leader che i musei debbano far cassa, che a guidarli è meglio un manager di uno studioso, capace di  farli rendere come un juke box e che arte, storia, creatività debbano essere commestibili come la maionese dentro al tramezzino, altrimenti per la loro sopravvivenza è preferibile affidarli a gente pratica di marketing e profitto.

Non poteva quindi sottrarsi all’obbligo di officiare i riti che celebrano le destinazione della cassetta delle elemosine europee,  senza guarda tanto per il sottile, sebbene fin dalla reinstallazione nel governo  Draghi gli sia stata scippata la competenza che gli era più cara e consona, quella del turismo, nonostante in anni si fosse adoperato per la conversione del bel paese in parco tematico, in italyland very bello, secondo i dogmi di Farinetti e Briatore

Così non gli avrà fatto né caldo né freddo che  il piano nazionale per l’impego del “prestito” europeo si sia limitato a destinare  alla “valorizzazione” dei nostri beni più preziosi, alla loro cura e manutenzione e al capitale umano che se ne occupa,  solo 6,68 miliardi di euro, che la principale linea di azione consista nella digitalizzazione delle imprese culturali e creative e del patrimonio culturale e artistico, intesa alla realizzazione di “piattaforme” che contribuiscano a “attuare quella trasformazione radicale della società e dell’economia necessaria per superare le sfide che ha posto la pandemia e quelle del prossimo millennio”, grazie alla informatizzazione  del contenuto di musei, gallerie, archivi e biblioteche  “al fine di permettere un accesso universale al patrimonio artistico e culturale e di facilitarne la divulgazione”.

E come non compiacersene, il lockdown ha dimostrato che anche la bellezza può e deve diventare agile come la scuola e il lavoro, tanto che hanno suscitato entusiasmo le visite virtuali promosse ad esempio dagli Uffici, che fanno il paio con le gite scolastiche effettuate in classe davanti al pc con tanto di colazione al sacco come se si fosse in pullman diretti alla tomba di Dante.

Aggiungiamo poi che gli investimenti servono anche ad “aiutare le imprese e gli operatori a sfruttare a pieno le potenzialità del digitale e delle nuove tecnologie”, incrementando  i processi di formazione «digitale», upskilling e reskilling del personale e degli operatori culturali, in modo da favorire la transizione tecnologica e creando “nuovi contenuti culturali”  di start-up innovative, con “l’obiettivo finale di stimolare un’economia basata sulla circolazione della conoscenza” come impongono anche il programma Europa Creativa e la strategia Digital4Culture.

E pensare che siamo così arcaici da ritenere che invece sia prioritario ricorrere ai sistemi del passato, quelli che avevano custodito memorie, siti archeologici, opere e d’arte, biblioteche, che avevano  garantito che potessimo godere di Pompei e Agrigento, prima che dovessero trasformarsi in smart city, grazie a una quotidiana azione di manutenzione, la stessa che dovrebbe essere impiegata per la salvaguardia del territorio, anche quella delegata alle nuove frontiere tecnologiche pensate per arricchire chi ha prodotto danni coi guadagni della “riparazione” postuma, costosa e effimera.

Con la campagna in corso di delegittimazione di storia, sapere, conoscenza tutto fa temere che i posteri non soffriranno granché del fatto che lasciamo loro in eredità – o in prestito, come si diceva negli anni d’oro dell’ecologismo –  rovine poco apprezzate, un ambiente disastrato, risorse consumate, paesaggio contaminato, a pensare che i futuri custodi del patrimonio del paese oggi chiamati a gestire la strategia della rinascita, sono stati accuratamente scelti tra giovani formati in discipline specifiche e specialistiche: economisti, ingegneri, matematici, informatici, giuristi e statistici.

Parlo del capitale umano di 500 laureati  selezionati tramite bando nazionale su  34 mila candidati da assegnare, a tempo determinato, al ministero dell’Economia e delle Finanze e alle amministrazioni titolari di interventi previsti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, escludendo categoricamente i diplomati in materie umanistiche, incompatibili con la visione del futuro che anima l’azione del ceto dirigente.

C’è almeno da sperare che siano già belli che formati e non debbano aspettare le risorse messe in campo proprio dal Pnrr per la ricerca definita nello stesso contesto il volano   “per lo sviluppo di una economia ad alta intensità di conoscenza, di competitività e di resilienza”, ma subito retrocessa ad applicazione tecnica  nel mondo d’impresa,  che si merita una fettina irrisoria della torta: poco meno di un miliardo per il finanziamento di dottorati innovativi che rispondano ai fabbisogni di innovazione delle imprese e promuovano l’assunzione di ricercatori nelle imprese, e  1,8 miliardi per il PNR (Programma Nazionale per la Ricerca) e il PRIN (Progetti di rilevante interesse nazionale), quelli che dovrebbero essere i principali strumenti di programmazione della spesa del settore.

Non so voi, ma ho sospetto che non mi troverò bene nel futuro secondo Draghi e i suoi mandanti a vedere chi ha concorso per assicurarsi un posto in prima linea nelle file della Pubblica Amministrazione che piace a Brunetta e che è incaricata di rendere la macchina dello Stato “più dinamica, giovane e moderna”: dei 34 mila aspiranti, il 42,7%  era coperto da profili giuridici, gli “economisti” hanno presentato il 34,7% delle domande, quelle per le competenze  statistiche sono  il 4,5% del totale mentre il 18,1% delle candidature sono pervenute per l’area informatico-ingegneristica. E non c’è da stupirsi, le materie in forza a critici, eretici, dubbiosi, pensanti, storia, filosofia e pure lingua italiana sono controindicate per chi si propone di mettersi al servizio dell’oligarchia specializzata nel procurare disastri e aumentare ignoranza. (2. Fine)