Anna Lombroso per il Simplicissimus
C’è poco da sperare quando le coscienze sono soddisfatte se a Sanremo fanno vincere un cantante di “origine” egiziana così si può continuare a dire che comunque sono troppi, che con i barconi arrivano anche tanti delinquenti, che badanti e braccianti si sono montati la testa e ci fanno concorrenza sleale.
C’è poco da sperare se il sindacato insieme a qualche confindustriale illuminato contesta il governo per le misure sull’immigrazione, ma ha taciuto quando il Jobs Act ha esposto lavoratori italiani e stranieri al rischio accertato di fare parte dello stesso esercito di riserva sa postare secondo i comandi padronali, abbassando i livelli di protezione e garanzie di chi qui c’è nato e consolidando il ricatto incarnato da chi non è in condizione di difendersi e esigere il salario dovuto. C’è poco da sperare se il palco di Piazza San Giovanni accantona la lotta contro la legge Fornero simbolo di quell’infame stato di obbligatorietà dello sfruttamento che depreda i lavoratori anche del salario accantonato fini pensionistici, ma ha sottoscritto con entusiasmo l’ipotesi di garantire la sopravvivenza dell’azienda-sindacato grazie al ‘welfare contrattuale’ un sistema che apre la strada alla trasformazione della rappresentanza e della negoziazione in attività di gestione di fondi pensione, mutue integrative ed enti bilaterali, in sostituzione privatistica dello Stato sociale.
E c’è poco da sperare se a livello locale i sindaci vengono sottoposti a severo giudizio per l’albero di Natale sbilenco o perché i delinquenti di svariate appartenenze etniche rubano o sparano, quando si è accolto con gradimento l’ampliamento delle competenze in materia di ordine pubblico incrementando il loro ruolo di sceriffi in modo da custodire quel decoro minacciato da straccioni di tutti i colori, sicchè il problema della casa è regredito al livello di emergenza da risolvere con polizia in assetto di guerriglia o tagliando i servizi essenziali. Perché anche in questo caso repressione, sacco del territorio, emarginazione, sfruttamento delle risorse e privatizzazione del patrimonio pubblico e del bene comune si possono esercitare nel pieno rispetto della legge.
E infatti proprio in questi giorni si vedono proprio i primi effetti di provvedimenti regionali, adottati e in fieri, del Veneto per la “riqualificazione urbana” e l’ edilizia residenziale pubblica intesi non certo al miglioramento della qualità urbana, o al contenimento del consumo di suolo, ma esclusivamente al rilancio del mercato edilizio, aumentando il peso delle aree già edificate da “rigenerare” con pingui premi di cubatura, permettendo per edifici con qualsiasi destinazione d’uso, ampliamenti sino al 50% del volume o della superficie esistente e attribuendo a tutti gli operatori privati premialità e sgravi fiscali indipendentemente da ogni organico disegno di trasformazione urbana, depotenziando e di fatto rendendo aleatori e discrezionali gli strumenti della pianificazione comunale, incrementando la disarmonia urbana e subordinando l’attività edilizia alle sole regole della rendita e della speculazione immobiliare che non risparmiano nemmeno i centri storici: fatti salvi gli edifici tutelati per gli altri si può impunemente derogare da prescrizioni e regolamenti di piano.
Non c’è da stupirsi dunque della recentissima delibera della giunta comunale veneziana che per «soddisfare le esigenze di residenza stabile dei nuclei familiari» avvia la selezione di progetti residenziali da realizzarsi sulla Terraferma del Comune di Venezia. In modo che «tutti i privati proprietari di aree non edificate, ricadenti all’interno del tessuto consolidato o ad esso adiacenti, anche se a destinazione agricola, possono presentare proposte per realizzazione di unità residenziali di modesta dimensione, fino ad un massimo di 800 mc.», in deroga alle disposizioni della pianificazione urbanistica con l’alibi che nella maggior parte dei casi la destinazione agricola non corrisponde ad un uso effettivo del fondo, spesso incolto o già parzialmente urbanizzato. Alibi, certo, perché le disposizioni non trovano giustificazione in una analisi del fabbisogno e dopo la preliminare indagine sull’adeguatezza dei servizi e delle infrastrutture esistenti, senza alcuna garanzia della persistenza dell’utilizzazione residenziale e in risposta a richieste inoltrate al comune da privati cittadini.
Qualsiasi animale urbano a Venezia e non solo e non solo sa cosa possano significare misure di questo genere, sa che sono pensate per autorizzare cambi di destinazione d’uso, per creare un clima favorevole alla contrattazione tra amministrazione e privati nella quale i secondi sono avvantaggiati, per promuovere la cacciata dei residenti dai centri storici convertendoli in siti turistici, con la trasformazione del patrimonio abitativo in uffici, hotel e residence di lusso, in quelle vetrine dove è esposta in vendita merce tutta uguale a Venezia come a Dubai, il cui frontline si vorrebbe copiare a Marghera, a fare da scenario suggestivo in gara col campanile di San Marco.
Come se non bastasse, la legge regionale del novembre 2017 recante norme in materia di edilizia residenziale pubblica ha dato i suoi frutti ancora più avvelenati, riformulando le norme precedenti con l’intento rivendicato con forza di garantire “una maggiore equità sociale prevedendo l’accesso alle graduatorie per l’assegnazione di alloggi ERP sulla base di strumenti più rappresentativi della situazione economica dei soggetti (utilizzo dell’ISEE, disciplinato dal DPCM n. 159/2013, che consente un’analisi della situazione sia patrimoniale che reddituale). E eccola la maggiore equità sociale: sono 1500 le famiglie che abitano nelle case Ater l’organismo su scala provinciale singole province che svolge compiti di ottimizzazione e gestione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica, che rischiano di restare senza casa per via dell’abbassamento previsto dalla legge dell’indicatore della situazione economica, l’Isee. Cui si aggiungono quelle con contratto 4+4 che a causa della crisi sono precipitate in fascia sociale e quindi non sono più in grado di pagare l’affitto. La legge ha pensato anche a loro intervenendo “positivamente” sul tasso di rotazione dei beneficiari, “al fine di garantire un adeguato ricambio delle famiglie in stato di bisogno nel sistema regionale ERP attraverso la conversione dei contratti a tempo indeterminato in contratti di locazione a termine, rinnovabili solo nel caso di permanenza dei requisiti”, in previsione di inattese vincite alla lotteria, del generarsi di occupazione qualificata e ben retribuita, della realizzazione di nuovi alloggi a prezzi politici o anche dall’ottimismo delle statistiche che collocano tra gli occupati chi ha un lavoro precario per sei mesi.
Si parla poco di questo, per l’anatema lanciato dagli operatori dell’informazione mainstream contro il “movimentismo”, contro tutto quello che evoca il conflitto sociale, il “disturbo della quiete pubblica”, per ridurre l’opposizione all’appannata retorica umanitaria ben attenta a non intralciare il cammino del capitale globalizzato. Nel 1945, qualcuno tempo fa l’ha ricordato, venne pubblicato un libriccino di Piero Bottoni, architetto, politico e accademico comunista dal titolo La casa a chi lavora e che recava in copertina la dicitura: L’abitazione non più oggetto della speculazione individualistica, ma servizio della vita collettiva. L’abitazione, come l’alimentazione, diritto base dell’uomo sociale derivante dal dovere del lavoro. Erano i tempi della ricostruzione del Paese e della costruzione della democrazia e quei principi avrebbero dovuto contrastare la tendenza ereditata dal fascismo della negazione di un diritto «derivante dal dovere del lavoro». Ricordiamolo a chi pensa che il fascismo sia risorto adesso e non sia una delle declinazioni di una belva avida e feroce che non è mai andata in letargo.