ULTIMO-TANGO-A-PARIGI-BERTOLUCCI-892x502Anna Lombroso per il Simplicissimus

Mettete la parola culo in un discorso, anche il più elevato e sacro, e sarà ricordato solo per quello. Citazione da Jules Renard, che calza anche per gli epitaffi odierni di segni opposto, quelli che celebrano il venerabile maestro e quelli che lo condannano a ostracismo postumo per violenze sessiste.

E infatti si deve a quell’oggetto di indecente concupiscenza, la fama di un film, altrimenti considerato minore, di un regista che ne voleva fare un manifesto politico sulla incomunicabilità, la crisi della famiglia e l’incapacità di vivere l’intimità oltre al sesso, frugandola con la smania dell’entomologo o del ginecologo, ridotto invece a pietra di uno scandalo quasi cinquantennale, vista e stravista malgrado tagli e censure in copie pirata e sale clandestine delle ville della provincia di Sissignore o nei manieri siciliano di divorzio all’italiana laddove il divorzio appena diventato legge era ancora e anch’esso riprovevole. L’accorgimento per far parlare di sé scelto da Bertolucci è una sodomizzazione perpetrata dalla star degli sciupafemmine, giù un bel po’ imbolsito e sciupato, con tanto di paletot di cammello indumento irrinunciabile per denunciare una virilità compromessa e  una smania di dissoluzione come Nella prima notte di quiete, ai danni della inquieta coprotagonista, ruolo affidato a una giovane attrice con l’inespressività propria della bellezza dell’asino.  La quale, si racconta, non era del tutto informata di tutti i particolari della scena che avrebbe interpretato compreso il sacrilegio commesso ai danni del condimento più amato dai francesi per giunta in patria, per la volontà dichiarata del regista di sorprenderla con qualche effetto speciale alla  Stanislavskij  in modo da cogliere emozioni forti, rendendo la finzione più credibile compresi grida  gemiti che a distanza di anni non reggono il confronto con la performance di Sally alla tavola calda. Perché comunque di simulazione scenica si tratta, perché, non me ne intendo, ma non si può sostenere nemmeno per i porno più hard, anche se francamente non me ne intendo, che fosse cine- verità e nemmeno un documentario scientifico su Krafft Ebing.

Ciononostante molti anni dopo la giovane attrice attribuì a quella interpretazione strappatale con l’inganno la sua discesa agli inferi della droga e della depressione, l’eclissi della sua carriera cinematografica, un senso di umiliazione che l’avrebbe perseguitata per sempre, un malessere esistenziale che non può non suscitare la pena che producono certe vite maledette e sprecate.

Così, in aperto contrasto con l’uso di un tempo di trasformare gli estinti in “poveri” cui è obbligatorio riservare rispetto e parlarne solo bene: nil nisi bene, a causa di ciò si è risvegliato quell’istinto non nuovo a tirar giù dal piedistallo il busto del Grande, a disarcionarlo se era in forma di statua equestre con un accanimento anche superiore a quello che ex elettori e appassionati simpatizzanti riservano a leader in disgrazia o defunti quindi inadatti a difendersi.  Quella scena  che vista oggi ha perso il significato di provocazione, conservando la triste malinconia ripetitiva che hanno i film sporcaccioni anche d’autore, con l’ostensione del peccato  ridotto a sconcezza vergognosa da consumare in silenzio e di nascosto, deve condannare  nei secoli all’oblio e alla cancellazione di talento, fama, gloria.

L’artista non deve essere e non è inviolabile e intoccabile: nel pubblico come nel privato non può rivendicare una superiorità che lo renda immune da critiche e deplorazione, che si venda a un regime o che compri i favori di  attricette, che copi o faccia un brutto film sia pure molto patinato secondo l’estetica di Hollywood come è successo appunto a lui.

Ma quello che non mi piace nella campagna del tribunale di genere non è la condanna senza perdono della violenza sia pure virtuale del reprobo, quanto quella, anche quella senza perdono, della donna al ruolo di vittima. Ruolo cui sembrerebbe impossibile sottrarsi per l’inadeguatezza trasmessa per codice genetico a resistere alla supremazia maschile, a rifiutare il compromesso o la soggezione morale e fisica a causa dell’evidente e naturale superiorità dell’uomo, per rendita, posizione, preminenza intellettuale, censo.

Sarò sempre al fianco delle vittime, si, ma non di chi le vuole tali, maschi che usano violenza fisica e morale, donne che fanno altrettanto attribuendo loro una fragilità e una gregarietà che le espone all’abiura del libero arbitrio, le autorizza, come inabili a negarsi, ad accettare di mascherarsi da kellerine alle cene eleganti, a manifestare per cause inique che nemmeno conoscono, le legittima a concedere favori se a esigerli è un potente e le giustifica se cedendo ne hanno tratto profitto, con una parte nello show, l’assunzione in un giornale, il contratto a tempo indeterminato. Grazie a una concezione del corpo femminile che ne fa una merce di poco conto rispetto all’intelletto maschile, che pare non si presti mai a diventare oggetto di vendita o meretricio, tanto che si grida allo scandalo se ai prostituti della penna e del pc si affibbia l’appellativo di puttane.

Credo che dovremmo tutti sottrarci al castigo di essere vittime, donne che sopportano una prevaricazione di genere aggiuntiva rispetto a quella dei maschi, espulse dal lavoro, retribuite con salari inferiori, costrette a riparare i danni della mancanza di assistenza e cura, penalizzate nelle loro vocazioni e aspirazioni, obbligate alla rinuncia di garanzie, scaraventate in un contesto arcaico e patriarcale che impone la rinuncia a diritti che si credevano inalienabili e che vengono limitati o concessi come elargizione a seconda dei bisogni del mercato. Maschi cui si assegna magnanimamente un’egemonia sulla femmina perché si rifacciano delle umiliazioni inflitte e subite senza avere il coraggio di dire no. Così come non si dice no all’oltraggio al territorio, alle opere che costruiscono edifici di corruzione, ai comandi dell’impero e dei suoi consoli, all’uso dei nostri quattrini per compere azioni o acquisti di guerra.  E in cambio delle vergogna per i si che diciamo, ci permettiamo solo un po’ di pietà che dispensiamo a chi crediamo inferiori.