Berlinguer e renziA me pare di sognare quando sento attraversare la barriera dell’onestà intellettuale e persino del buon gusto, la domanda se Renzi sia una specie di Obama ( qualunque cosa voglia dire ormai) oppure un allievo di Berlusconi. Come se davvero ci potessero essere dei dubbi sul padroncino di Rignano e sui suoi istinti animali, visto che di idee politiche non si può seriamente parlare o sui suoi appoggi e i suoi finanziatori, sui suoi comportamenti tracotanti coi deboli e sottomessi fino al ridicolo con i forti. Ma il sogno si trasforma in incubo quando vedo che tutto questo non ha praticamente opposizione nel partito di riferimento del premier, una cui parte mugugna e alza la voce per poi rimanere catafratta sulle proprie poltrone senza mai affrontare il rischio e la sfida di una scissione da quel groviglio magmatico, destrorso e pappagallesco che è ormai il Pd.

Il fatto che questa dialettica irrealizzata e un po’ ridicola, molto utile del resto a un partito che vendemmia a destra, ma che non vuole rinunciare all’etichetta di sinistra, non sia stata ancora screditata, è dovuta al permanere nella sinistra di una sindrome da compromesso storico che spinge a pensare che sia meglio partecipare e illudersi di cambiare le cose dall’interno piuttosto che rimanere marginali. La storia parlamentare di due secoli ci dice che le cose non stanno proprio così, che una minoranza determinata e dotata di chiarezza di idee, può influire sulla maggioranza molto di più di quanto non possano farlo sottogruppi coinvolti nella logica del potere, men che meno in un ambiente degradato dove le sorti personali dipendono strettamente dalle obbedienze in chiaro e da quelle criptate. Dimostra anche che le minoranze possono aspirare ad aumentare i consensi solo se rimangono fedeli al loro ruolo e non divengano imbarazzanti fotocopie di altro.

Quando Berlinguer negli anni ’70 lanciò il compromesso storico lo fece per sottrarre il Pci alla conventio ad escludendum dovuta alla bipolarizzazione mondiale e anche all’evidenza, definitivamente chiarita con il golpe cileno, che se anche quella convenzione fosse stata contraddetta dalle urne, subito le forze già operanti degli stragisti avrebbero cominciato a fare gli straordinari. Per di più dopo la stagione krusceviana la stessa Urss dava segni di aver esaurito la spinta propulsiva, anzi di stare covando il declino. La scelta, col senno di poi, è stata un errore, non solo perché dopo la solidarietà nazionale il Pci ha perso incisività nel contrastare il neo liberismo nascente, ma soprattutto perché, senza volere, ha iniettato nella sinistra l’idea che la governabilità – miraggio raggiunto dopo trent’anni di opposizione – fosse l’obiettivo principale e che valesse un certo grado di compromissione. Idea di cui peraltro Napolitano, comunista per caso, è stato un assoluto portabandiera. La dissoluzione dell’Unione sovietica fece diventare questa propensione un modus vivendi e cogitandi sfociata poi nel consociativismo. Tanto che ancora oggi troviamo  nelle discussioni che vanno dal nucleo del residuale progressismo del Pd al nugolo di asteroidi della sinistra, non prospettive, idee, visioni, sostanza, ma quasi solo questo reperto di 40 anni fa, la domanda se essere un partito di testimonianza o entrare nella stanza dei bottoni.

Un interrogativo che risale  a un mondo diverso e che ha segnato con le tutte le peculiarità del caso il declino e la resa delle sinistre europee le quali di compromesso in compromesso hanno fatto proprie tutte le premesse liberiste. Una tattica e una strategia, volta a conservare le conquiste del dopoguerra transando sempre più sulle idee e trovandosi con una governabilità che ormai è di destra o non è. Si perché nel frattempo molta parte di elettorato se ne è andato in  ordine sparso oppure nemmeno conserva una mezza idea che la realtà imposta non sia l’unica possibile, che ciò che appare come un’ingiustizia non sia un malfunzionamento, ma dipenda dalla logica interna del sistema. Un caso di scuola è proprio l’articolo 18 sul quale è nata una battaglia simbolica e importante: purtroppo quelli stessi che hanno cercato di arginare il guappo di Rignano, sono però portatori dell’idea – come dimostrano i fatti a partire dalla seconda metà degli anni ’90 e in maniera evidentissima negli ultimi tre – che le perfomance economiche e la competitività si raggiungono solo col taglio dei salari e che quest’ultimo può essere ottenuto grazie allo smantellamento delle tutele  e dei diritti. Essi stessi si espongono all’accusa di incoerenza perché dopo aver creato il sillogismo cercano di evitarne le conseguenze.

Stare nella stanza dei bottoni a fare ciò che fanno gli altri non serve proprio a nulla se non a conservare per quel che vale qualche bandiera stracciata, qualche posto, qualche reliquia da vendere. Una vera formazione progressista al 12, 15 %, livello di consenso assolutamente ipotizzabile per difetto in prima botta per uno schieramento non coinvolto nella gestione delle macellerie sociali, potrebbe fare molto di più che sceneggiate come quella dell’incontro tra Renzi e i sindacati: poco più che atti dovuti. L’unica maniera per rinascere è cominciare a sgomberare  dal tavolo proprio l’idea che il senso dell’ azione politica consista nel voler essere opposizione pura o maggioranza ambigua, con tutte le scorie connesse e condizionare attraverso questa chiave tutto il proprio percorso.