Anna Lombroso per il Simplicissimus

C’è stato un tempo nel quale i pensatori raccomandavano ai padroni delle ferriere di pagare dignitosamente gli operai e ai principi di non esagerare con tasse e balzelli, perché lavoratori e cittadini appagati e sazi sono più redditizi, producono meglio e di più, sopportano qualche umiliazione compensata da straordinari e mance. È passato molto tempo da allora: anche senza scomodare i fantasmi di Olivetti o di altri imprenditori illuminati che sognavano di realizzare le loro utopie in odor di socialismo, da anni ormai sono l’avidità e la smania bulimica di accumulazione a farla da padrone. Industriali e manager fanno a gara per guadagnarsi i record dello sfruttamento speculativo, una volta assaggiato il dolce sapore dei proventi azionari facili e delle fiche della roulette globale, e si vanno un vanto per l’incremento del gruzzolo e per gli oculati risparmi di risorse che avrebbero dovuto investire in sicurezza, innovazione e salari congrui.

Se qualcuno si domanda quale pervicace volontà ispira la pratica di umiliare i cittadini, la determinazione a ridurre diritti e garanzie, la tenacia con la quale si pretendono rinunce e sacrifici in cambio di una democrazia formale dietro la quale si consumano soprusi e   si moltiplicano disuguaglianze sempre più profonde e insanabili, una delle risposte può consistere nella convinzione dell’oligarchia che sono superiori  e più fertili i margini di manovra, intimidazione e ricatto esercitati nei confronti di gente depredata di tutto, più fecondi di profitto, e che lo stato di necessità ha come effetto quello di far sembrare la libertà un optional, del quale ci si  può privare se è compensato da standard minimi di sopravvivenza, da tutele concesse dalle élite che pensano per noi, per la nostra salute, per il mantenimento di un ordine pubblico che  mette ai margini potenziali rischi di destabilizzazione.

È servita a questo la demolizione dello spirito di comunità, la dissoluzione di ogni principio di coesione e solidarietà, incompatibili con i valori forti capisaldi del neoliberismo: competitività, concorrenza, meritocrazia, arroccamento nelle mediocri tane ancora permesse come premio fedeltà a chi dimostra la volontà di uniformarsi e obbedire.

Ma c’è dell’altro: le etnie dell’impero occidentale hanno perso il loro appeal di clienti, acquirenti e perfino utenti,  per far posto ad altri bacini di  compratori e a altri mercati.  Se da cittadini ed elettori eravamo stati promossi a consumatori compulsivi, ora il destino segnato è quello di diventare dati da sfruttare, far circolare, rivendere per arricchire le nuove economie delle piattaforme e favorire il business del controllo sociale. Ormai impoveriti, tartassati, dissanguati come cespite per grandi operazioni speculative, sanitarie o belliche, siamo estromessi dal mercato. Salvo che da quello dei doveri, delle responsabilità e delle colpe, come dimostra la campagna contro gli sprechi organizzata per attribuire ai cittadini i danni della siccità combinata con le nefaste conseguenze di privatizzazioni che hanno innalzato i costi, abbassato la qualità e la quantità della risorse erogata, determinato un sistema perverso clientelare che ha sviluppato gli aspetti più aberranti della “cultura” del marketing, concorrenza spietata, voto di scambio e corruzione, opacità.

La regressione dello Stato a operatore commerciale assoggettato alle regole dei più spregiudicati soggetti ha ridotto lo spazio pubblico, costringendo enti, aziende di servizio, a piegarsi ai canoni che ispirano l’azione dei soggetti privati. Insieme all’obsolescenza accelerata che è stata inferta ai beni di consumo durevoli, è stato dato luogo a un modello di mercificazione effimero, precario come il nostro lavoro, atrofico e dunque adeguato alla retrocessione dei nostri desideri e delle nostre aspettative in capricci incompatibili con lo status di cattivi pagatori. La riduzione a merce della vita sociale non è bastata però a salvare il modello di “sviluppo” dalla stagnazione che ha assunto dei tratti di vero e proprio cupio dissolvi. E se ha ottenuto il risultato di sostenere e premiare le pressioni del capitale di investimento per la privatizzazione di servizi fino a allora offerti “pubblicamente”, telecomunicazioni e informazione, persuadendo la collettività che si trattava di “prodotti” antiquati e non rispondenti alle esigenze della clientela,  l’unico effetto positivo a fronte del rincaro dei costi, della progressiva perdita di qualità dell’offerta, fisiologico ma favorito dalla volontà di  dimostrare che non c’è alternativa praticabile all’efficienza e efficacia delle performance private è rappresentato dalle fortune degli imprenditori della comunicazione  e dell’intrattenimento di massa, da  Murdoch a Berlusconi.

Uno degli aspetti peculiari del loro successo è costituto da un pilastro portante della loro propaganda, l’offerta cioè di prodotti sempre più personalizzati, calibrati su aspettative, esigenze e bisogni individuali, identificati grazie alle pratiche di sorveglianza e controllo sociale applicate alle scelte commerciali e di consumo, intercettate grazie all’invasività della vigilanza sulle “preferenze” della clientela. Si tratti dei consumatori dei digiuni eccellenti attovagliati nell’isola dei famosi, di personale politico che decreta la sua affermazione mutuando attitudini e comportamenti degli influencer, della accettazione di gerarchie di bisogni e garanzie che ha permesso la demolizione dell’edificio dei diritti fondamentali che si credevano inalienabili, per promuovere la loro “sostituzione” con concessioni arbitrarie, tolleranza superficiale e di facciata che non compromette gli equilibri disuguali dell’organizzazione di classe.

Pare però che abbiano tirato troppo la corda, che dovremmo impiegare con finalità sociali superiori.

L’accanimento con il quale l’oligarchia pensa di aver compiuto la sua missione distruttiva potrebbe rappresentare la causa della loro stessa rovina, se l’imposizione di sacrifici immotivati, l’obbligo morale intimato per la manutenzione del suo dominio criminale, stanno, sia pure lentamente, dimostrando  la sua debolezza della quale, mortificati, impoveriti, defraudati, dobbiamo approfittare per ristabilire antichi confini tra quello che è legale e quello che è illegittimo, tra giusto e ingiusto, tra Bene, nostro, e Male, il loro con il quale possiamo aspirare ad avvelenarli, soffocarli, spazzarli via.  (2. Fine)