Dopo il suo exploit a favore delle restrizioni di ordine costituzionale sui vaccini e la loro obbligatorietà  si poteva stare certi che il vecchio Chomsky avrebbe tuonato contro la Russia, ma di certo non ci si poteva aspettare che nel suo nuovo libro di prossima uscita fosse una resa alla banalità e all’infantilità di un discorso volto all’ablazione totale del contesto storico, come fosse un qualunque giornalista a cachet, per cui “l’invasione dell’Ucraina è un grave crimine di guerra. È sempre opportuno ricercare spiegazioni, ma non ci sono giustificazioni o attenuanti”. Si è insomma rivelato  uno di quei “nuovi mandarini” contro cui si era scagliato al tempo della guerra del Vietnam, incapaci di un discorso storico ed etico che potesse portare al pacifismo. Fu quello il primo dei tanti interventi critici che hanno fatto di Chomsky una sorta di educato dissidente che ha attraversato mezzo secolo e che come una rana bollita si è man mano adattato a ogni invasione americana. e che partendo da una critica dell’imperialismo si è seduto sul velluto dell’impero.

Il fatto è che Chomsky così come molti altri intellettuali di  oltre oceano è stato sempre critico delle amministrazioni di Washington e di certi sviluppi sociali, ma sempre e comunque dal punto di vista dell’eccezionalità americana. Egli è uno scrittore critico dell’impero, ma che non mette mai in dubbio il fatto che esso debba esistere e che debba essere liberal liberista. Egli si è sempre scagliato contro quelle idee e azioni che potevano mettere in crisi il buon nome dello stile di vita americano e del buon diritto di controllare il mondo: la sua non è mai una critica di sistema, ma semplicemente di gestione dello stesso ed ecco perché per ogni strage americana c’è sempre una qualche giustificazione che non cancella il diritto morale al dominio, mentre l’azione russa volta ad evitare un genocidio di gente che chiedeva l’autonomia, è al contrario ingiustificabile,

Del resto questo è il peccato originale dell’intellighenzia a stelle e strisce che rimane sempre soffocata dentro questi limiti non riuscendo mai ad esprimere un reale antagonismo al pensiero unico anche quando fa sfoggio di radicalità. Certo i 95 anni di Chomsky giocano un loro ruolo in queste prese di posizione, così come la progressiva perdita di prestigio delle sue teorie linguistiche ma diciamo che sono ciò che rimane quando si è dimenticato tutto, l’istinto e la cultura di fondo che balzano in primo piano senza il salvagente di quelle  costruzioni intellettualistiche e quei veli di linguaggio che normalmente attenuano e in qualche modo diluiscono il discorso. Così ecco che Chomsky si è bollito da se stesso ed è diventato il protagonista ideale di quel suo antico aggio dei nuovi mandarini. E tuttavia la mancanza di qualunque dialettica nella condanna alla Russia è al limite più significativa di qualunque possibile diluizione: la banalità tranchant è frutto proprio del cambiamento di mondo che si annuncia e che Chomsky evidentemente percepisce tanto da scagliarsi tout court contro chi mette in crisi l’egemonia americana e i suoi valori azionari più che etici. Questo davvero non ‘ è consentito, non ha “né giustificazioni, né attenuanti”. Per Chomsky e purtroppo per molti altri la fine di un mondo è la fine del mondo