Anna Lombroso per il Simplicissimus
Non so a chi dobbiamo il repentino passaggio da “sono solo canzonette” all’attribuzione della funzione poetica, profetica e civile ai cantautori, con tanto di Nobel a Dylan da cuor che fa rima con amor e in qualche versione più pruriginosa con ardor di Panzeri e Mascheroni, dalle performance tenorili di Claudio Villa peraltro celebrate gramscianamente da Pasolini come manifestazioni di arte nazionale e popolare, all’invettiva militante in musica, da canterellare in macchina, davanti a un falò in spiaggia, in modo che si possa essere certi che disperda la sua carica antagonista.
Avrà contribuito di certo il pantheon post sociologico che faceva capo a Veltroni o a Borgna, che aveva preso l’impegno di sgombrare il campo da memorie di riscatto e emancipazione, collocando in soffitta il neorealismo rimpiazzato da Giovannona Coscialunga, così come avevano voluto fare Berlinguer o De Mauro trasformando l’università in diplomificio funzionale al turnover del ceto dirigente, così come venivano conferite in discarica le parole d’ordine della lotta di classe e perfino le sue canzoni.
Se Brecht e Weill erano stati condannati a passare per la mediazione, per quanto onorevole e appassionata, di Milva, è andata peggio alla tradizione delle canzoni popolari di lotta, soggette a restyling e rimaneggiamenti per renderle accettabili a Sanremo, imitate grossolanamente perché “la barca andasse” trasformando le mondine in forosette vocaliste dei 4 più 4, le operaie delle filande in afflitte vittime delle molestie del paron dalle bele braghe bianche, per far diventare tutto commestibile e accessibile negli scaffali dell’outlet globale. E per ridurre De Bosio e De Martino a testimonial delle saghe della Taranta a disposizione del target delle masserie e dei trulli promossi a relais e hotel de charme. O, peggio ancora, per promuovere la retrocessione della meno significativa delle canzoni partigiane a inno delle sardine allo scopo di commemorare un antifascismo senza resistenza, o come colonna sonora della resilienza dal balcone in tempo di lockdown.
Dovevamo aspettarcelo, ma resta l’amara sorpresa che dalle ceneri di Gramsci, dalla poesia civile con le rime incatenate di Pasolini, dagli articoli in versi e dalle sperimentazioni liriche del Gruppo 63, da Lolli, dalla Marini, da Pietrangeli prima della Fininvest, da Ivan Della Mea e Ciarchi e Amodei, non sia scaturito niente di meglio del rapper tatuato e inanellato, che occupa lo spazio morale offertogli dal ceto dominante, per il quale si prodiga come testimonial, lo stesso che, anche grazie a attrezzi come lui, ha espropriato la gente, gli sfruttati, i sommersi delle parole per dire la loro collera e la voce per cantarla, normalizzando la protesta e le passioni dentro i limiti di nenie narcotizzanti.
E non stupisce che la morte del celebrato cantautore che si è divertito a costruirsi un’immagine criptica, misteriosa e enigmatica, giocando con parole, testi, provocazioni per acchiappare i citrulli e prendere per i fondelli i critici e gli apologeti in cerca di spiegazioni per i versi dello sciamano, per le allusioni del mistico, per le annunciazioni dell’oracolo, sia diventata merce di consumo istantaneo e l’occasione per il lutto narcisista e egotico di chi l’ha conosciuto da vicino e deve commercializzare l’opportunità della perdita, trovando uno spazio per la sua rappresentazione personale e autoreferenziale.
Da tempo un comunista duro e puro non ammetterebbe mai che la sua colonna sonora è la Canzone del sole di Battisti, da tempo automatismi largamente adottati, un tweet di Salvini, un aforisma della Meloni, permette di sedersi dalla parte del giusto, anche la strofetta diventa slogan e propaganda offerta all’abuso, rimuovendo doverosamente le “minchiate assolute” della Murgia o il “disdicevole” della Boldrini, uniche esternazioni insieme all’omofobia di Fedez, suscettibili di redenzione.
E difatti da ieri è in corso una nobile gara per promuovere il consumo dell’artista defunto e della sua opera a fini personali, e che lo paragona a Stravinskij, e chi rivendica intimità e confidenze, e chi magnifica il ruolo di ispiratore, e chi si vanta di aver rotto il suo aristocratico e schizzinoso isolamento, e chi si dedica alla decodificazione di stilemi, e chi si impegna a cogliere i messaggi ecumenici e la dimensione religiosa del, cito, suo “lascito sapientale tradotto in formule musicali semplici e immediate”, in un delirio di autocelebrazione e di culto della personalità, si, ma di se stessi.
A quelli come me, che sono una stupidina superficiale e primitiva, resta immaginare che chi non c’è più dondoli le gambe seduto su una nuvoletta, guardando giù e ridendosela per quanto ha preso per i fondelli con il cinghiale bianco, i dervisci e lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco quei Gesuiti euclidei, vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori, che hanno sempre bisogno di un profeta, di un martire, di un leader per trovarsi un centro di gravità.
Per quello, come capita per noi gente comune senza essere Proust, le canzoni di Battiato ricordano momenti, presenze care, amici perduti e amici rimasti con i quali io vorrei tornare a cantare E ti vengo a cercare andando a Fregene in macchina, o danzare come una zingara del deserto magari con un candelabro in testa, che faccia un po’ di luce in tanto buio.
Ho proprio ragione, il passaggio non sufficientemente meteorico dei lettori di risvolti di copertine che hanno valorizzato Banfi e Bombolo oltre a Franchi e Ingrassia in qualità di interpreti e incarnazioni della cultura popolare più schietta, ne ha fatti di malanni. E’ così che un ceto che rivendica superiorità culturale, sociale, dunque morale, che i dervisci li ha visti roterare durante vacanze intelligenti e se c’è una mostra della dinastia dei Ming non può mancare costi quel che costi, nel contribuire all’infantilizzazione del paese e alla criminalizzazione dei margini rozzi e ignoranti, ci guadagna perchè così può compiacersi della sua remota distanza, che Hoffmansthal gli spiccia casa, unico autorizzato a decodificare i messaggi del Vate, Che peraltro mi pare che nei suoi brani accessibili perfino a me l’abbia ritratto con l’idealtipo del bonzo, del gesuita euclideo, del ciellino. Ci vorrebbe Arbasino – molto più cruento di Fruttero – per descrivere certi sussulti provinciali di gente che ha alle spalle le file riprese da Moretti delle copertine immacolate di Einaudi o quelle blu Adelphi, che Sellerio si è sputtanato con Montalbano. Ma che poi come mia nonna che chiamava il “povero” anche Hitler morto nel bunker, si straniano, perchè allora la buona educazione oggi il politically correct proibiscono di parlare dei morti se non per lodare se stessi che li hanno apprezzati. Si vede proprio che ho urtato un nervo sensibile dello snobismo di massa, che ha avuto “apprezzamenti” cui mai potrei aspirare quando esulo dalle canzonette. Deve proprio dipendere dal fatto che invece che dell’estinto che mi ha fatto compagnia e che ho apprezzato divertendomi proprio per la sua evidente indole dissacratoria dei pomposi ignoranti di ritorno, me la sono presa con gli zombi. Anna Lombroso
Caspita che commentoni… anche Anna La Rouge Gauche Caviar Très Chic in fondo ha diritto al suo pubblico.
Polpettone? Autocompiacimento ? Smania egotica ? Probabilmente sarebbe un lessico che si può adattare anche a Proust, ad Alfieri, a Leopardi. Ma la critica ai tre sommi non farebbe un passo in avanti in analisi del testo, in semantica socio-linguistica…Sarebbe opportuno che quando si voglia criticare un testo che più che ampolloso, definerei complesso e di classe, ci si soffermasse sugli elementi cogenti, soprattutto quando si voglia fare delle sbrigative osservazioni…La carrellata di Anne, oltre che essere una brillante disamina delle evoluzioni moderniste di classe di un tempo che fu, ha una grande valenza letteraria che per chi non conosce gli elementi basilari della filosofia significa abbracciare in un contesto semantico i temi empirici della politica restituendoli ad uno spazio più ampio che colga gli elementi cartesiani del discorso arricchendoli (mi si permetta di essere conciso) in esprit de finesse…
Molto bello. E penso che Battiato avrebbe approvato quello che hai scritto, probabilmente borbottando. Non era Pasolini, non ci piove. E neanche Marx, men che meno.
E non è nemmeno Stefano Santaniello…
Ahi Ahi Ahi, qui siamo al livello di Michela Murgia…
Bene Anna, indietro tutta.
In effetti, sminuire il serio lavoro di Battiato su musica e testi è da “stupidina superficiale e primitiva”. Specie se lo scopo non sembra essere quello di esprimere una critica nel merito. Non ve n’è traccia nel pur chilometrico polpettone che ammannisce agli eventuali lettori, al solito confuso e ampolloso. Se non altro, per una volta, il testo è quasi privo di refusi: brava, 7+. Straborda, invece, la smania egotica di apparire contro, più per posa che per convinzione, e l’infantile autocompiacimento nel tentare demitizzare l’artista a cadavere ancora caldo. Ma quello che negli intenti vorrebbe essere un esercizio di anticonformismo appare come come un calcio dell’asino tirato a vuoto.
Con tristezza, ma condivido ogni parola di questo commento…
@ABianchi.
Sintetizzando:
molto meglio essere degli onesti, magari eccessivamente riduttivi, atei come la Lombroso, che ingenui che scorgono nel “sentimentalismo” di certa arte, l’espressione più sublime della spiritualità e della Ποίησις.
Stupisce altresì, che l’esercizio di certo conformismo assiomatico, obblighi a demitizzare qualcuno solo a cadavere freddo.
Questa sì, a mio modesto avviso, una biasimevole apparenza sempre a favore della santificazione a prescindere, che dura il tempo del calore del cadavere: un bel calcio dell’asino che arriva sempre a destinazione!