Anna Lombroso per il Simplicissimus
Qualcuno si è lamentato: anche il lutto e lo sdegno sono disuguali, se il caso della giovane morta nell’azienda tessile in cui lavorava, impigliata e poi risucchiata nel rullo di un macchinario, ha colpito l’immaginario collettivo che rimuove invece, nell’indifferenza generale, le notizie quasi quotidiane di morti sul lavoro, in un tempo e in un Paese nei quali il posto è un privilegio da mantenere anche a costo della vita.
E nei quali i “padroni”, che di quelli si tratta, grandi e piccoli, si sentono autorizzati in veste di custodi e promotori dello sviluppo e dell’occupazione a sottoscrivere con il governo un impegno di carattere “volontario” per la sicurezza a condizione che li esoneri nel caso di contagio da Covid e purché si tratti di misure estemporanee da far decadere a pandemia felicemente conclusa, e anche prima magari, visto che da un anno metà dei lavoratori italiani si sono esposti al rischio narrato come incontrastabile, severo e maligno, andando in fabbrica, da Amazon, al supermercato, viaggiando su mezzi pubblici affollati, e ultimi nelle salvifiche liste d’attesa vaccinali.
Proprio mentre l’aula davvero sorda e grigia di quel Senato che in un susseguirsi di figuranti ha votato dal ’98 almeno cinquanta provvedimenti in materia di lavoro, dalla cancellazione dell’articolo 18, alla legge Fornero, dal pacchetto Treu alle disposizioni per promuovere la precarietà, la mobilità e quei contratti anomali la cui opacità aiuta a non far conoscere i “danni collaterali”, fino al Jobs Act, commemorava la giovane operaia, un altro dipendente di un’azienda meccanica moriva in seguito a un incidente al tornio in provincia di Varese.
E è vero senz’altro che la storia di quella giovane vita spezzata, di quella ragazza madre di un bambino di 5 anni, ridente e bella nelle foto che circolano in rete con il ricordo della sua comparsata in un film, che ha fornito l’occasione al protagonismo del regista di un epitaffio instant e on demand, ha avuto un risalto inusuale, se pensiamo al disinteresse generale registrato di fronte ai dati dell’Inail che proprio ieri ha informato che nei primi tre mesi di quest’anno sono arrivate 185 denunce di infortunio mortale, 19 in più del 2020, che lo scorso anno ci sono state 1.270 morti bianche, oltre 3 al giorno (di queste meno di un terzo sarebbe attribuito al Covid).
E dire che chiamano quelle sul lavoro morti bianche come fossero senza il rosso del sangue e il nero del crimine, mentre chiamano la peste morte nera.
E’ che solo un paese sano e civile non ha bisogno di eroi e di martiri. Invece noi per prendere atto dei crimini impuniti della Thiyssen, dell’amianto di De Benedetti, dei veleni dai Riva in poi a Taranto, dei colori mortali di Ciriè e delle nuvole tossiche di Cengio, abbiamo bisogno di vederli incarnati in un viso che compare sui social e sui giornali online, e che si distingue dalle migliaia di facce di operai, muratori, contadini, autisti, di alcuni dei quali non sappiamo niente, nemmeno una breve in cronaca, spesso perché non sono compresi nelle statistiche, perché erano irregolari e da irregolari sono diventati anche invisibili, da vivi e da morti, mentre per altri la morte sarebbe meritata in veste di fattore umano che sbaglia e cui i tribunali doverosamente addossano colpe e responsabilità morali.
Ma a guardar bene c’è un altro aspetto che spiega l’emozione suscitata dalla morte davanti a una macchina che l’ha stritolata come la mascella di un mostro meccanico feroce che se l’è mangiata.
E’ che il sogno di quella ragazza, di sfondare nel cinema, di fare un po’ di soldi, di essere riconosciuta per strada, è la speranza di migliaia e migliaia di giovani che devono accontentarsi delle illusioni, che si aspettano di poter emergere dal Grande Fratello e approdare a Palazzo Chigi, che fantasticano che basti circolare nel parterre dei reality e dei talent per agguantare l’occasione che riscatta da una vita grama, senza aspettative e senza futuro.
E che si convincono che si è giovani e che c’è tutto il tempo per essere benedetti dalla sorte, da un agente, da una di quelle società patacca che scoprono talenti mangiando i risparmi di famiglie che “investono” nel book di foto o nel master a Londra, preliminari in tutti e due i casi a un destino di pizzaioli e commesse, e non capiscono invece che restano giovani solo quelli già selezionati all’origine o dai cacciatori di teste che scelgono i prodotti da mettere sul mercato degli sfruttatori e dei lacchè, quelle grandi speranze delle dinastie e delle cordate industriali, o gli eterni zerbinotti della politica promettenti e vezzeggiati a 45 anni, con carriere caldeggiate sotto l’ala protettiva dell’Europa o di emiri e sceicchi che vedono come una qualità promettente cinismo, spregiudicatezza, avidità.
Sono queste le speranze di giovani cui è stata negata una scuola che insegni a ragionare, a farsi e a fare domande, a esigere il rispetto dovuto ai cittadini, a pretendere il riconoscimento dei propri talenti e dei propri diritti. Sono queste le velleità e le scorciatoie di ceti impoveriti retrocessi a classe disagiata, espropriati dei diritti delle conquiste e dei valori del lavoro, commemorati in stantie celebrazioni officiate in un gigantesco apparato di intrattenimento consumistico con contorno di vuote parole retoriche e di scandali a cura di giovani immeritatamente miracolati.
Sono questi i prodigi che si aspettano per sfuggire all’unica certezza rimasta, quella di faticare senza protezione e all’unica gratitudine che è concessa, quella da riservare non ai maestri e ai martiri che ci hanno insegnato la lotta e il riscatto per i propri diritti, ma a chi ci elargisce la paga, quando sono fuori da ogni agenda politica remunerazioni dignitose, giustizia giusta che difenda dallo sfruttamento, una scuola che insegni a conservarsi il rispetto e non a comprarlo, una sicurezza che garantisca di poter manifestare per i propri diritti, a cominciare da quello di lavorare senza rischi, senza paura per la propria vita e per il proprio domani.
Ma la protezione della salute secondo il governo, secondo i governi, non si esercita in fabbrica, nei campi, nei magazzini e sui mezzi della logistica di oggi e di domani, non rientra nelle componenti del Pil, nemmeno nel piano della partita di giro europea, se nemmeno un euro del miliardario recovery fund è destinato a tutelare chi produce, chi è essenziale, chi è utile, chi paga le tasse, tutti nella stessa barca spinta nel mare in tempesta dagli stessi padroni di sempre.
Sono queste le speranze di giovani cui è stata negata una scuola che insegni a ragionare, a farsi e a fare domande, a esigere il rispetto dovuto ai cittadini, a pretendere il riconoscimento dei propri talenti e dei propri diritti. Sono queste le velleità e le scorciatoie di ceti impoveriti retrocessi a classe disagiata, espropriati dei diritti delle conquiste e dei valori del lavoro, commemorati in stantie celebrazioni officiate in un gigantesco apparato di intrattenimento consumistico con contorno di vuote parole retoriche e di scandali a cura di giovani immeritatamente miracolati.