Da decenni, sin dai primi anni ’80, la razza padrona ha tentato di far credere alle persone che la ribellione sia qualcosa di antidemocratico e di incivile, una pratica per violenti e per quelli che non sanno né vogliono dialogare, una tesi che ha finito col prevalere in un Paese che dopo la stagione del Sessantotto con la sua mutazione valoriale e poi quella del terrorismo, reclamava il “privato” come dimensione politica e inclinava al decisionismo che poi venne sdoganato da Craxi e incarnato da Berlusconi. che rappresentava per così dire l’aspetto farsesco di una tendenza in tutto l’occidente sotto i colpi dell’egemonia neoliberista. Quindi la ribellione è stata completamente cassata dall’orizzonte politico per rifugiarsi nello psicologismo hollywoodiano e in una concezione adolescenziale del ribellismo senza orizzonti, puramente biologico e gratuito di cui il giovane Holden è stato lo stampo. E dal quale non ci siamo mai più liberati scendendo a precipizio verso gli inferi del ribellismo modaiolo.
Al contrario la ribellione costituisce l’etica della democrazia ovvero la reazione dei cittadini di fronte alle imposizioni del potere e alla sua intrinseca violenza che cerca sempre di barare sul patto sociale dal quale è nato. Senza possibilità di ribellione reale e non soltanto di tribuna la democrazia perde di senso, perché manca uno degli elementi essenziali alla dialettica che tiene assieme popolo, rappresentanza e legislazione e si entra invece dentro i confini della tirannide ancorché morbida. Cosa si deve fare se il potere nelle sue varie forme e istanze non rispetta più la legge fondamentale sulla base della quale viene legittimato? Solo abbozzare e stare attenti a non superare i limiti stabiliti non più in base allo spirito costituzionale, ma all’arbitrio? In certe condizioni la ribellione a regole imposte senza senso è persino un dovere civico. Del resto il diritto alla ribellione è scritto a chiare lettere nei documenti fondamentali della nascente democrazia borghese. La dichiarazione di indipendenza degli Usa recita: “Quando una lunga serie di abusi e usurpazioni, perseguendo invariabilmente lo stesso scopo, evoca il progetto di ridurre un popolo sotto il dispotismo assoluto, è suo diritto e dovere, combatterlo”. Ancora più chiara, forte ed evoluta la formulazione dei diritti dell’uomo del 1789, ancora oggi parte del quadro legislativo francese: “Lo scopo di qualsiasi associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e inalienabili dell’uomo. Questi diritti sono libertà, proprietà, sicurezza e resistenza all’oppressione”. E ancora: “Quando il governo viola i diritti delle persone, l’insurrezione è, per le persone e per tutto il popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri ” Tutto questo echeggia nella dichiarazione dei diritti dell’uomo, dell’uomo quella del 1948 sia pure formulata in un contesto piuttosto ambiguo che al tempo rifletteva la preoccupazione del potere occidentale verso possibili rivolte popolari di orientamento comunista: “è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla rivolta contro la tirannia e l’oppressione”. Quindi quando quelle norme vengono stracciate non c’è altra possibilità che la ribellione. Persino nella Costituzione italiana stava per entrare un articolo sul diritto alla ribellione che saltò all’ultimo momento per mano democristiana armata dagli Usa.
Non siamo forse proprio di fronte a questo? Ovvero alla messa in mora della legge fondamentale e dunque della caduta di quel monopolio della forza che i cittadini concedono allo Stato proprio nell’ambito di una cornice legale che non può venire meno?
Il fatto è che la paura della ribellione e il disagio che provoca in molti ha a che fare con il precipizio culturale nel quale stiamo rotolando senza appiglio ormai da quarant’anni e con l’assassinio per mano televisiva di ogni spirito critico e di ogni dignità che ad esso si accompagna: la cultura è infatti nella sua essenza, una forma di ribellione contro il contesto sociale, storico, politico, economico ed ideologico. Finirà poi per diventare la nuova normalità, diventerò conformismo e potere mentre una muova ribellione intellettuale andrò ad affacciarsi. Questa visione dialettica del mondo e della società, ancorché subliminale e naif, abbracciata o combattuta era fino a quarant’anni fa patrimonio comune. Poi è arrivato il neoliberismo e la sua pretesa di non avere alternative, di essere la realtà migliore possibile ed è calata addosso alle nuove generazioni l’eterno presente che non conosce evoluzione, ma solo la distrazione futile delle mode, mentre la privatizzazione di ogni cosa ha ricevuto un ampio consenso sociale. Ed ecco perché oggi ribellarsi persino di fronte al conformismo più stupido, alla verità più evidente è diventato così difficile nonostante sia in qualche modo un dovere civico: c’è proprio una difficoltà intrinseca a stonare nel coro anche quando esso si rivela letale per se stessi. E quel poco di protesta che si è vista fino ad ora arriva da parte di gente stremata, è un lamento più che un grido. Il fatto è che si è realizzato il circolo vizioso suggerito a suo tempo da Orwell: “Finché non diverranno coscienti della loro forza, non si ribelleranno e finché non si ribelleranno, non diverranno coscienti della loro forza”. Il potere con le sue pandemie e i suoi coprifuochi, i suoi distanziamenti tenta di impedire proprio questo, che tale spirale si spezzi.
La tessera del PNF venne soprannominata “Tessera del Pane” per l’importanza che assunse in uno degli aspetti più importanti della vita sociale del Paese: il lavoro.
Si pensi che le iscrizioni al Partito aumentarono a dismisura quando, il 29 marzo 1928, si decise che gli iscritti al P.N.F. avrebbero avuto la precedenza nelle liste di collocamento (più antica era l’affiliazione, più si “scalavano” le graduatorie).
Nel 1930, il tesseramento da almeno 5 anni divenne requisito fondamentale per ricoprire incarichi scolastici di alto livello (presidi e rettori) e dal 1933 per il concorso a pubblici uffici.
La tessera divenne poi obbligatoria nel 1937 per ricoprire qualsiasi incarico pubblico.
Dal 1938, la mancanza di iscrizione al partito comportava l’impossibilità di accesso al lavoro e pesanti sanzioni per quegli imprenditori che decidessero di assumere un dipendente che ne era sprovvisto.
Questo fu la causa dei flussi migratori di quanti per motivi politici non volevano allinearsi al regime ma dovevano mantenere una famiglia, ma paradossalmente anche di iscrizioni al partito da parte di quanti erano sostanziamente indifferenti alle ideologie politiche fasciste.
http://www.storiedipianura.it/agenda-personale/curiosita-dagli-archivi/204-le-tessere-del-fascismo.html
Tra poco avremo un documento equivalente alle tessere di partito degli anni ’30: i passaporti vaccinali, ma con un’importante differenza, sarà inutile emigrare in cerca di una situazione migliore visto che la gabbia dittatoriale è ormai estesa a tutto il mondo..
“il 29 marzo 1928, si decise che gli iscritti al P.N.F. avrebbero avuto la precedenza nelle liste di collocamento (più antica era l’affiliazione, più si “scalavano” le graduatorie).
Nel 1930, il tesseramento da almeno 5 anni divenne requisito fondamentale per ricoprire incarichi scolastici di alto livello (presidi e rettori) e dal 1933 per il concorso a pubblici uffici.
La tessera divenne poi obbligatoria nel 1937 per ricoprire qualsiasi incarico pubblico.””
Meritocrazia fascista ( che fa rima con “clientelista” ?)…
Progressi (??) in politica :
https://it.sputniknews.com/intervista/2021042110441026-vitalizi-gli-ex-parlamentari-condannati-tornano-a-chiedere-i-soldi-lo-fara-anche-berlusconi/
È ora di occuparsi della povertà (??) in itaGlia…
https://it.sputniknews.com/opinioni/202002148728790-toglietemi-tutto-ma-non-i-vitalizi-le-pensioni-doro-e-i-privilegi/
Tralasciando il fatto che “Senza possibilità di ribellione reale e non soltanto di tribuna la democrazia perde di senso, perché manca uno degli elementi essenziali alla dialettica che tiene assieme popolo, rappresentanza e legislazione e si entra invece dentro i confini della tirannide ancorché morbida”, ancorché descritto come un probabilità non necessariamente attuabile, mentre ne è l’epilogo scontato e inevitabile (anzi: direi che non si può, in definitiva, trattare di altro…), mi interessava dire due parole su “Cosa si deve fare se il potere nelle sue varie forme e istanze non rispetta più la legge fondamentale sulla base della quale viene legittimato?”, perché è su questa “legittimazione” che si costruisce tutta l’impostura democratica (scusandomi per la lunghezza):
“L’argomento più decisivo contro la “democrazia” si riduce a due parole: il superiore non può promanare dall’inferiore, perché il più non può trarsi dal meno. Ciò è di un rigore matematico assoluto, contro cui non v’è cosa che possa. Importa notare che proprio lo stesso argomento, applicato ad un altro ordine, vale anche contro il “materialismo”: concordanza per nulla fortuita, giacché le due attitudini sono assai più connesse di quanto possa sembrare a prima vista. È fin troppo evidente che il popolo non può conferire un potere che esso non possiede. Il vero potere può solo venire all’alto, ed è per questo, diciamolo di passata, che esso può divenire legittimo solo attraverso la sanzione di qualcosa di superiore all’ordine sociale, cioè di una autorità spirituale: altrimenti è solo una contraffazione di potere, uno stato di fatto ingiustificato perché mancante di un principio, e tale da dar luogo solo a disordine e confusione… Definita come l’autogoverno del popolo, la “democrazia” è una vera impossibilità, qualcosa che non può nemmeno esistere come un fatto bruto, né nell’epoca nostra, né in un’altra qualsiasi. Non bisogna farsi giocare dalle parole: è contraddittorio ammettete che stessi uomini possano essere ad un tempo governati e governanti perché, usando il linguaggio aristotelico, uno stesso essere non può essere in “atto” e in “potenza” simultaneamente e sotto lo stesso riguardo. La relazione suppone necessariamente la presenza di due termini: non possono esservi dei governati se non vi sono anche dei governanti, siano pur essi illegittimi e non aventi altro diritto al potere oltre quello che essi stessi si sono arrogato. Ma la grande abilità dei dirigenti democratici del mondo moderno sta nel far credere al popolo che esso si governi da sé. E il popolo si lascia persuadere volentieri, tanto più che cosi esso si sente adulato, mentre è incapace di riflettere quanto occorre per accorgersi di una simile impossibilità. Per creare questa illusione, si è inventato il “suffragio universale”: è l’opinione della maggioranza come presunto principio della legge. Ciò di cui non ci si accorge, è che l’opinione pubblica è qualcosa che si può facilissimamente dirigere e modificare. Per mezzo di adeguate suggestioni in essa si possono sempre provocare delle correnti nell’uno o nell’altro senso…Ma andiamo più in fondo alla questione: che cosa è propriamente cotesta legge del maggior numero invocata dai governi moderni più o meno democratici come unica loro giustificazione? È semplicemente la legge della materia e della forza bruta, la legge stessa in virtù della quale una massa trasportata dal proprio peso schiaccia tutto quel che incontra sulla sua via. Proprio qui si ha il punto d’interferenza fra la concezione “democratica” e il “materialismo” e ciò che fa si che quella
concezione sia intimamente legata alla mentalità attuale. E’ il completo capovolgimento dell’ordine normale, giacché è la proclamazione della supremazia della molteplicità come tale,
supremazia che effettivamente esiste soltanto nel mondo materiale…Una élite vera, l’abbiamo già detto, può essere soltanto intellettuale nel senso super-razionalistico da noi sempre dato a questo termine: per cui la “democrazia”, e con essa ogni individualismo liberale e ogni collettivismo, possono farsi largo solo là dove l’intellettualità pura non esiste più, come ne è appunto il caso del mondo moderno. Solo che l’eguaglianza essendo impossibile di fatto, e essendo praticamente impossibile sopprimere ogni differenza fra gli uomini, ad onta di ogni opera di livellamento si finisce, con un curioso illogismo, con l’inventare delle false élites, élites multiple, che pretendono sostituirsi alla sola élite reale. E queste false élites si basano sulla considerazione di superiorità varie, eminentemente relative e contingenti, e sempre d’ordine materiale. Ci si può accorgere facilmente di ciò notando come quasi dappertutto la distinzione sociale che oggi più conta è quella basantesi sulla fortuna, sui beni, cioè su di una superiorità affatto esteriore e d’ordine esclusivamente quantitativo; la sola, insomma, che sia conciliabile con la “democrazia” perché procedente dal suo stesso punto di vista.”.
“L’argomento più decisivo contro la “democrazia” si riduce a due parole: il superiore non può promanare dall’inferiore, perché il più non può trarsi dal meno.”
L’inferiore può anche naturalmente crescere fino a diventare grande o superiore… non credere in assoluto ad un possibilità di questo tipo significa avere una profonda ( e cinica ?) Sfiducia sull’uomo, e sul progresso ( faticoso fin che si vuole…) sociale…
Quindi, secondo lei, la superiorità è una questione di tempo, non ontologica. Capisco: col tempo e la paglia maturano pure le ‘sorbole’, nevvero? Nemmeno le distopie più sesquipedali servono ad ammazzare le inconsapevoli comicità socio-progressiste!
Beh, guardi negli anni ’60 e ’70 un progresso rispetto agli anni ‘ c’è stato ( e Non penso dipendesse solo dalle classi dominanti abili e magnanime…)… di ontologico mi sembra ci sia un atteggiamento dogmatico di imperitura e dogmatica sfiducia verso l’uomo… certo dirlo nel frangente storico degli ultimi decenni, è per il mio brevissimo argomentare parecchio complesso…
ma già i piccolo esempio che ho portato può rendere l’idea…dopodiché Non penso che ne gli appartenenti alle classi subalterne ne quelli appartenenti alle classi dominante abbiano poteri taumaturgici o miracolosi…sicuramente finche i primi rinunciano a far valere le loro rivendicazioni , i secondi avranno buon gioco ad angariarli…
…guardi negli anni ’60 e ’70 un progresso rispetto agli anni ‘40-50 c’è stato …
Tutto giustissimo. Purtroppo la ribellione era una cosa di sinistra, mentre oggi la sinistra e’ scomparsa, nel senso che o e’ opportunisticamente legata al potere (quella liberal-progressista), o si affida a speculazioni astratte sulle ‘leggi oggettive’ del materialismo dialettico per cui la crisi deve per forza di cose partorire il momento rivoluzionario (quella ‘radicale’). Quest’ultima e’ la sinistra che aspetta Godot, e che assurdamente fa il tifo per la narrazione covidiana. Non si sa chi sia peggio. Intanto pero’ qualcosa si muove, anche a sinistra, grazie soprattutto alla contro-informazione di blog come questo. Grazie!
Concordo in toto, aggiungo che anche io sono rimasto sconcertato dalla totale assenza di reazione, figuriamoci di ribellione, da parte dei giovani. Tranne qualche timido tentativo di affermare il diritto allo studio, con occupazioni poco più che simboliche di scuole e istituti, NULLA! Eppure ai giovani, ancor più che agli adulti, in quest’anno di dittatura sanitaria è stato tolto TUTTO! Dalla scuola, allo sport, agli spazi di socializzazione, persino al divertimento. Eppure subiscono, passivamente, senza un moto di ribellione. Quei pochi che reagiscono, lo fanno in modo nichilista e autodistruttivo, con risse organizzate sui social dove si bastonano l’un l’altro, invece di bastonare chi gli sta fottendo il presente, e ipotecando io futuro! Ma del resto, questo è appunto l’effetto voluto e perseguito dal potere attraverso la distruzione di ogni dimensione culturale e sociale dell’orizzonte giovanile, come tu giustamente hai detto, ridotto a sfogarsi in puerili e sterili mode di finto ribellismo, che in realtà sono funzionali a mantenerli in uno stato di totale soggezione di fatto al potere.