
Anna Lombroso per il Simplicissimus
Laterale rispetto al Teatro la Fenice e al palazzetto nel quale sono conficcate due palle di cannone sparate da una nave austriaca – che ancora oggi incuriosiscono i rari bambini veneziani che nulla sanno di una città che aveva fatto delle libertà di culto, commercio, credo politico, di stampa, di opinione e di sogno (è a Venezia che dobbiamo la prima edizione dell’Utopia) il suo carattere speciale, si trova l’Ateneo Veneto di Scienze, Lettere ed Arte, la più antica delle istituzioni culturali della città nata il 12 gennaio 1812 e ancora oggi attiva.
Era stata la sede di confraternite dedite alla cura delle anime dei condannati a morte per impiccagione e difatti la sua prima denominazione era Scuola dei Picai, gli impiccati. Poi dopo l’abolizione della pena di morte divenne sede di un sodalizio di medici, scrittori e filosofi uniti dall’amore per Venezia dalla battaglia comune per i diritti politici e civili.
E in quelle sale, dove campeggiano ancora oggi le grandi tele cupe di d’Anna, Corona e Palma il Giovane si sa che Daniele Manin, del quale è conservato un pomposo busto marmoreo, riunì intorno a sé in un “amalgama” nazionale, come lo definiscono gli storici, la meglio gioventù e i vecchi liberali della città che postulavano la possibilità di opporsi “legalmente” all’amministrazione austriaca, con una determinazione e un carisma inspiegabile per quel piccolo ebreo che veniva preso in giro per la statura, la timidezza e la balbuzie e che invece rivelava una potenza persuasiva e una foga trascinante quando parlava di politica.
Tanto che li convinse a firmare insieme a lui, i primi giorni dell’anno 1848, una prima petizione rivolta alle autorità austriache per chiedere il rispetto della nazionalità italiana, la concessione dell’autogoverno, la libertà di parola, l’ingresso nella Lega doganale italiana, l’abolizione dei privilegi feudali che ostacolavano l’agricoltura, l’apertura a vie commerciali facendo passare la Valiglia delle indie, ma anche la riforma del diritto di famiglia, la libertà di culto, e misure sanitarie, poiché, scrisse, la sapienza della Serenissima insegnò come difendere il popolo del contagio e anche Governi “dominati” hanno quell’esempio da seguire per tutelare i dominati. E poi una seconda più audace con la quale chiede che il Regno Lombardo veneto diventi veramente “nazionale e italiano”.
La risposta non tarda a venire: il 18 gennaio Manin viene incarcerato insieme a Niccolò Tommaseo, ma il loro arresto incendia l’anima dei veneziani, si moltiplicano le manifestazioni e espressioni di protesta e dissenso. I due clan, i Castellani e i Nicolotti, nei quali si divide la popolazione mettono fine alla secolare contesa, nobili e plebei passano davanti alle Carceri in Riva degli Schiavoni, con gagliardetti e copricapi tricolore per rendere omaggio ai due prigionieri, i professionisti, mercanti, avvocati, notai e medici, decidono di indossare abiti da lutto e si offrono di pagare la cauzione per Manin, non si festeggia l’inizio del Carnevale e gli editti delle autorità vengono coperti di scritti che invitano alla ribellione.
Il malumore monta mentre giungono dalla terraferma notizie di fermenti insurrezionali, finchè il 17 marzo nel corso di una vera e propria sollevazioni popolare, il governatore Pàlffy dà l’ordine di liberare i due prigionieri che vengono portati in trionfo in Piazza San Marco dove Manin arringa la folla galvanizzandola con le parole: “vi hanno per altro tempi e casi solenni, segnati dalla Provvidenza, nei quali l’insurrezione non è pur diritto, ma debito“.
Scriverà di quei giorni la “Gazzetta di Venezia. Foglio uffiziale della Repubblica Veneta”, “il mondo, che non molto addietro chiamava Venezia caduta….or può dirla redenta; ed ella si redense da sé, senz’altro aiuto che quello del suo coraggio, della sua fede in sé stessa“. Dopo che i disordini vengono repressi nel sangue, podestà e assessori municipali costringono Pfally a accettare che venga organizzata una guardia cittadina, per ristabilire condizioni di “ordine pubblico” durante le trattative.
Ma la notizia dell’insurrezione di Milano contro Radetzky riaccende gli animi, la guardia civica occupa Palazzo Ducale e la Torre di san Marco, i lavoratori dell’Arsenale in sciopero guidano i tumulti forti dell’intesa raggiunta tra Manin e ufficiali di marina italiani intenzionati a impadronirsi die cantieri, l’anello più importante e più critico del dispositivo militare austriaco, tanto che circola la notizia “di cannoni apparecchiati e di razzi imbarcati in un legno di contro alla città” facendo intendere che ci fosse l’ordine di bombardare Venezia.
Ed è proprio davanti all’Arsenale che la mattina del 22 marzo Manin proclama la Repubblica.
Anche se la storia non è maestra, c’è davvero da analizzare come mai una città che veniva descritta dai manuali per i viaggiatori come un repertorio di “immagini di rovine e desolazione, sotto tutti gli aspetti morali e fisici”, o come la dipingeva qualche anno prima l’arciduca Ranieri d’Asburgo, futuro viceré del Lombardo-Veneto: “dappertutto palazzi cadenti, dappertutto rovine, dappertutto sfaccendati e schiere di mendicanti“, alzi la testa in un moto di riscatto rivoluzionario se non si limita soltanto a affrancarsi dall’occupazione straniera.
Mentre era detenuto Manin aveva reso una lunga deposizione al tribunale criminale di Venezia, nel corso della quale aveva messo in guardia gli austriaci dal rischio che il fuoco che covava sotto la cenere divampasse, per reagire alla repressione e alla censura esercitate da un regime poliziesco che esigeva la coscrizione obbligatoria per tener buoni i riottosi italiani con una foresta di baionette, parola di Metternich; oltre che per combattere gli inviti alla sopportazione e sottomissione che venivano ripetuti dalla Chiesa che bollava di eresia chiunque professasse “sentimenti liberali” e il “desiderio di miglioramenti sociali” e per pretendere condizioni di uguaglianza.
Se è vero quello che gli storici teorizzano, che cioè le condizioni di Venezia e del Veneto erano migliorate passando dal tallone di ferro francese a quello italiano, se è vero che la città aveva goduto della condizione di essere considerata una propaggine del pingue impero da promuovere esaltando la sua funzione di meta per i grandi viaggiatori e a quello era servito il ponte ferroviario, la realizzazione di alcuni lussuosi alberghi e di spiagge attrezzate per i salutari bagni di sole e mare, se è vero che ci si affrettava a smentire la narrazione di una città che era meglio visitare prima che andasse in rovina in modo da assistere se si era fortunati al “suo ultimo giorno”, se è vero che era stata tacitata la voce del patriarca che lamentava che due veneziani su cinque erano in condizioni tali da dover beneficiare dell’assistenza pubblica, è altrettanto vero che l’Austria ricavava dal Veneto e dalla Lombardia più di un terzo delle entrate dell’impero, che l’imperatore manteneva un controllo assolutista sulle “province” grazie al commissariamento da parte di un ceto di burocrati che aveva occupato e infiltrato di ogni settore della società con l’appoggio delle autorità locali e della Chiesa. oltre che dell’aristocrazia terriera espropriata e che voleva rifarsi dei beni perduti, grazie ai criteri arbitrari introdotti dalle riforme catastali promosse dall’Austria.
E se a Venezia i poveri erano poveri e molti: almeno 40 mila (più o meno il numero degli attuali residenti del centro storico) vivevano in condizioni di estrema indigenza, e i ricchi erano pochi ma molto ricchi, la regione e la città pativa anche le disuguaglianze rispetto a altri territori più competitivi sia per quanto riguardava la recente e primitiva industrializzazione del comparto tessile e sia per il favore concesso con regimi fiscali speciali alle produzioni vinicole piemontesi e lombarde. E non erano le sole differenze, i setaioli maschi guadagnavano 1,5 lire austriache al giorno, le operaie la metà, come gli scopini, i mercanti erano stati estromessi dalle vie del doux commerce e anche l’aristocrazia terriera soffriva dei criteri arbitrari introdotti dalle riforme catastali promosse dall’Austria.
Aveva denunciato tutto questo il commissario distrettuale Fortunato Sceriman in un compendio Dei difetti del reggime austriaco: “Non vi era né Corpo pubblico, né pubblico stabilimento, né classe alcuna di persone immune da fastidio e da malcontento o per la quasi privazione dei politici diritti, o per l’inceppamento dell’esercizio dei diritti civili o municipali” o “per l’enormità o mala distribuzione dei pubblici carichi” o “pei procrastinati giudizii,… l’insensibilità e il meccanismo coi quali ne’ pubblici Uffizii si disimpegnavan i più vitali e pressanti affari“, adombrandone gli inevitabili effetti: “diffusa esacerbazione” della “massa della popolazione“, “una generale inquietudine” che incarnava i “desideri di miglioramenti legittimi“
E a questo aveva risposto Manin quando disse che “ove è paura non può esservi virtù” né compostezza o ragionevolezza, e che dove c’è necessità non risiede la libertà, che spetta a chi conosce le catene riconquistare.
Dura poco la rivoluzione veneziana, ma dovrebbe essere rivendicata come una Comune degli italiani per quella volontà di combinare riforme che garantissero la “perfetta uguaglianza de’ diritti civili e politici” di tutti i cittadini a prescindere dalla religione professata, piena libertà di stampa, l’instaurazione dello Stato di diritto, con misure che promovessero l’altrettanto perfetta uguaglianza dei diritti del lavoro, di accesso all’istruzione, di appagamento di talento e aspettative.
La rivendicazione di sovranità di un popolo che si riprende i suoi monumenti del lavoro e della memoria viene ricordata dalle cronache di allora che raccontano come “Ogni sera i poveri abitanti de’ più remoti sestieri, che per lo passato non si recavano in piazza se non nelle primarie solennità, rubavano un’ora a’ consueti lavori per visitare il loro nuovo dominio”, il Palazzo Ducale, l’Arsenale, la Piazza ripresi e restituiti, come dovremmo imparare a fare noi.
La storia è fondamentale per capire quello che accade al presente, e poter prevedere eventuali scenari futuri. Bisogna che sia studiata su testi affidabili, non di parte, e si studi anche quella di altri paesi e popoli del mondo, per collegare e provare la veridicità degli avvenimenti. Finora a livello scolastico, si è sentito quasi sempre una sola campana, con il risultato che ha prodotto schiere di annoiati analfabeti storici ai quali non interessa proprio il passato, nè i vecchi che sono stati testimoni di esso. Vivono l’eterno presente in modo virtuale e passivo, non si sono neanche resi conto che coloro che hanno assaltato Capitol Hill, erano guidati da un “capo vigliacco” che li incitava protetto da uno schermo, invece di guidarli, rischiando la vita con loro in prima persona, come è sempre accaduto in passato. Oggi quelli che volessero fare la rivoluzione, non sanno di essere diventati solo personaggi di videogiochi, che permettono ai loro irresponsabili manovratori di divertirsi. Tanto ci sono la delegittimazione con le fake news, il silenzio stampa, e altri modi per negarne l’esistenza. Bisogna tornare a parlare, e a guardarsi negli occhi, per capire di chi ti puoi fidare, mettendo da parte i social, il vero guinzaglio di tutti.