Anna Lombroso per il Simplicissimus
Chissà se l’ha chiesto l’Europa alla professoressa Cristina Bonaglia, preside del liceo Fermi di Mantova, di effettuare test di ingresso alla sua scuole, instaurando, per motivi di necessità, il numero chiuso.
“Siamo oltre i trenta alunni per ognuna delle nostre sei prime, troppi. Faremo come all’università: prova d’ammissione e numero chiuso. Useremo il criterio della meritocrazia, come ha già deciso il consiglio d’istituto. Invito i genitori a non allarmarsi”.
Con una circolare, la dirigente del provveditorato provinciale ha chiesto alle famiglie “in eccedenza” di accettare lo spostamento del figlio all’istituto indicato come seconda scelta”. Non è la prima e non sarà l’ultima, la preside Bonaglia: anche la seconda scelta minaccia di seguire il suo esempio: pochi professori, poche aule, rischio di affollamento e scarsa professionalità. Altri, come il convitto Umberto I di Torino, “approfittano” del test d’ingresso a gennaio, “per motivare maggiormente i futuri alunni del liceo”, per istruirli meglio con la cultura del mercato, della concorrenza e della competitività.
C’è poco da stupirsi: in Paesi ridotti come la Londra di Oliver Twist, la prossima procedura di selezione, già silenziosamente applicata in Grecia, consisterà nel somministrare sapere a chi non sviene dalla fame, far fare compiti in classe a chi si porta i fogli protocollo da casa insieme alla carta igienica, far pagare in forme dirette e indirette il diritto all’istruzione in modo che sia esplicitamente chiaro che non lo è più, un diritto, ma un privilegio, forse un’elargizione, offerta magari come negli Usa, a chi gioca bene a calcetto, e certamente una concessione.
In fondo qual è il rischio? Che si allarghi quella zona grigia, che si abbassi la sua età media, che cresca di numero, in tutto il Paese, quell’esercito di ragazzi e ragazzini che non vanno a scuola, non hanno l’età per accedere a un lavoro, che quando la raggiungono non hanno un mestiere, che comunque il lavoro non c’è, che non tentano più nemmeno concorsi che vanno deserti, che- li vediamo già – ciondolano in branco per strada, o stanno a casa, letargici, davanti al pc o alla tv, insomma che lieviti una moltitudine offerta al mercato della precarietà quando non alla manovalanza criminale.
Siamo ormai ridotti o ad accontentarci, o all’esercizio della nostalgia: di Dolci, di Capitini, di Don Milani, di Calamandrei, di maestri e maestre che pensavano – e militavano, quindi – che la scuola non fosse solo strumento di sapere, ma anche di conoscenza e coscienza di sé e del proprio valore, e motore di civiltà. I lumi scendevano verso le basi secondo vecchi sogni e utopie ora dismesse, per abbattere le barriere di classe, per permettere al popolo di sapere, e quindi di difendersi.
E’ grazie a loro, al vituperato ’68, a conquiste di diritti e garanzie del lavoro, cui obbligatoriamente ci hanno fatto rinunciare, che le scuole superiori si erano aperte ai “figli del popolo”, alla piccola e modesta borghesia che prima doveva ripiegare sulle magistrali per le ragazze o per gli istituti tecnici per i maschi, mentre alla borghesia veniva riservata la facoltà di inventarsi le sue scuole, affidate o meno a ordini religiosi, sensibili a perpetuarsi della cultura dominante e alla superiorità della classe dirigente.
Sembra sia rimasta a loro la vocazione. Ai preti e ai sacerdoti del mercato che promuovono le loro scuole e le loro università, nelle quali riaffermare la supremazia del profitto, propagare le credenza che un Paese progredisce se cresce il Pil, mentre diminuisce il numero di cittadini privati del diritto alla salute o all’istruzione.
La “vocazione” sembra non fare più parte dell’attrezzatura obbligatoria dei docenti, così come sono stati costretti a abbandonare la certezza del posto fisso. Senza la crudeltà del dottor Johnson che si riferiva all’esercito, grazie alla decadenza obbligatoria indotta dal pensiero forte berlusconiano e post berlusconiano, ai tagli, grazie al progressivo abbattimento, largamente suicida, dei valori della cultura, dell’istruzione, della conoscenza, anche come fattori di competitività e affermazione di un paese, la scuola è sospetta di diventare l’ultimo “rifugio degli imbecilli”, o dei frustrati, dei “remissivi”, degli amorfi, condannati a una grigia mediocrità
A meno che non rialzino la testa per la loro personale dignità, ma per il riscatto della scuola, della conoscenza, del sapere, che sono poi la vera arma da mettere in mano a chi vuole riprendersi il futuro.
Ecco adesso hanno il tempo e il motivo giusto per scendere in piazza ben oltre la battaglia sulle 20 ore, per dimostrare che la scuola, come i diritti e la bellezza, sono di tutti i cittadini e che la loro vocazione è insegnare per imparare, tutti, l’uguaglianza.
Ma sì, è evidente che le eresie sono una cosa seria, come è evidente che la classificazione delle attitudini e dell’orientamento scolastico di un ragazzo può essere intempestiva o superficiale e cristallizzare un giovane in un tipo di formazione di cui, più tardi può scoprirsi insoddisfatto o deluso. Non sarebbe stato impossibile traghettare un diplomato di una scuola tecnica e conseguente formazione verso un anno propedeutico; ma non sono qui a discutere di aggiustamenti a riforme scolastiche, dico solo che le schematizzazioni in campo educativo sono spesso nociveC.
Del resto un ragazzo impreparato o senza attitudine difficilmente sarebbe potuto approdare (prima che gli esami fossero trasformati in quiz…”a crocette”) a una laurea in medicina, in ingegneria o altre ancora.
Mi riferisco a ciò che scrive Mariaserena Peterlin poco sopra. Mi spiace, ma Sullo fece solo una gran porcata democristiana ed ecco perché: a Medicina, per esempio, un perito meccanico, oltre a non aver approfondito l’etica adatta a capire anche solo la deontologia Ippocratea o Ippocratica, ed il senso della professione nell’economia del rapporto medici pazienti, aveva comunque già una serie di sbocchi immediati lavorativi coi quali guadagnarsi da subito uno stipendio. Invece, i diplomati dai licei, non avevano in tasca nulla di spendibile ma solo l’obbligo di proseguire l’Università per conseguire il titolo adatto alla professione. Ora, dal momento che a quei tempi fare il medico condotto e altro rendeva assai bene, la facoltà fu invasa da ragazzi spesso acriticamente spinti al miraggio dei guadagni futuri. Quando poi la realtà si rivelò ben diversa, dopo qualche anno, i medici di base essendo ridotti a meri passacarte, ecco che ci siamo ritrovati con tanti medici insoddisfatti e frustrati egoisticamente per i mancati guadagni sperati. Dei pessimi medici, purtroppo. Le aule poi strapiene sino all’impossibile, ove chi stava seduto più lontano, se non in piedi, non riusciva neppure a sentire le parole del docente, le segreterie oberate di pratiche con gli impiegati stressati e inveleniti, gli appelli che saltavano a capriccio dei docenti manigoldi, e altro ancora, fecero tutto il resto. E così dicasi per Architettura, Ingegneria, Psicologia, Legge, e che altre. Altro che un sacrosanto diritto! Il diritto, semmai, era quello di poter far fare i licei a tutti quelli che volevano per poi accedere tranquillamente alle facoltà programmate per detti licei. Quindi non scriva eresie. Anche mio padre era stato nei lagers tedeschi, aveva lottato per salvarsi la pelle, e poi si era laureato, se è per quello. Io volevo fare il Liceo Artistico e fare poi il pittore o lo scultore, ma lui mi disse: “te lo ripeto di nuovo: cosa vuoi fare, ora? Il Liceo Artistico non è una scuola !” Invece lo era, eccome, e per di più mi avrebbe permesso d’insegnare Storia dell’Arte o che altro, otre alla gioia di immergersi nell’Accademia di Brera!
purtroppo nel nostro paese diversi anni fa c’è stata una sconfitta ,che oggi,ma non solo da oggi,paghiamo molto cara.sta intervenendo in ogni dove del sociale.non si arresterà fin tanto che non’avrà raggiunto il suo scopo;azzerare tutte le conquiste della capacità sociale di essere promotrice del suo benessere. spostando l’orizzonte visivo in avanti,ma concretamente affossando tutte le conquiste ottenute con le lotte, la ristrutturazione della grande borghesia capitalistica affronta la sua debolezza strutturale facendola pagare alle masse che come sempre sperano nel messia salvatore.bisogna scardinare questo loro paradigma economico,questa teoria della crescita infinita,la mano divina del mercato che regola tutto l’esistente.altrimenti si riproporranno aspetti già vissuti in altri tempi,esclusioni di classe,anche se questa può sembrare fuori luogo.
correggo un refuso:
“la preside di cui si parla è la principale responsabile, ma mai come per la scuola, dove comunque esistono ancora i famosi Organi Collegiali di cui fanno parte i docenti eletti da altri docenti *** le responsabilità sono anche di molti ***
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Questo articolo, Anna, mi chiama. Ci sono tante cose che mi riguardano da vicino. Dico subito che avendo insegnato per oltre trentacinque anni la scuola, e in particolare la media superiore, penso di conoscerla bene.
Però parto da più lontano ancora.
Sono stata una di quelle ragazze che hanno fatto le magistrali, non perché la mia famiglia non avesse ambizioni maggiori per me, ma perché uscendo dalla guerra e dalla campagna di Russia, dalla prigionia e dalla clandestinità mio padre aveva della vita una visione che definirei grande e precaria nello stesso tempo.
Il suo pensiero era che le figlie si rendessero presto indipendenti ottenendo un lavoro, e il diploma di maestra lo assicurava. (e già questo è un capitolo lungo su cui potrei dire tanto e scrivere di più, ma non è questo il luogo)
Dopo il diploma ho superato un concorso per potermi iscrivere all’università.
Ho conosciuto sbarramenti e numeri chiusi fin da bambina quando, per esempio, per andare alle scuole medie si doveva superare un esame di ammissione.
Insomma mi ci vorrebbe un libro , forse due per raccontare tutto.
Però una cosa la dico subito: aprire l’università a tutti non fu un’azione demagogica, fu riconoscere un diritto. Se poi fu mal gestito la responsabilità è stata anche di Sullo, ma non solo sua.
Il numero chiuso di cui parli è una vergognosa forma di sudditanza al mediocre sistema esclusivo che non premia eventuali “secchioni” ma ragazzi come gli altri, esattamente uguali, ma che hanno avuto opportunità più favorevoli, una crescita meglio seguita e scuole precedenti più utili allo scopo.
Dovrei dire tante cose ma ne aggiungo una sola: la preside di cui si parla è la principale responsabile, ma mai come per la scuola, dove comunque esistono ancora i famosi Organi Collegiali di cui fanno parte i docenti eletti da altri docenti. Chiamo inoltre in causa anche i genitori che fanno parte del consiglio di Istituto che è competente in materia di iscrizioni.
Mi scuso per il tono, esasperatissimo e lo so, ma mai come quando si parla di scuola ci sono responsabilità individuali, personali e non solo dirigenziali o collettive. L’esclusione ci condanna, ci condanna tutti e dire che è una vergogna è poco: è cannibalismo morale e sociale.
Sottoscrivo articolo e commento precedente.
Di fatto il “numero chiuso” per il liceo italiotta è solo un premio per i secchioni, nel migliore dei casi. Penalizzare dei ragazzini imponendo simile restrizione in una età ove la conflittualità interiore spesso non li rende spugne capaci di assimilare le nozioni imposte , porta magari ad escludere chi sia intelligente, sensibile,e con qualità, per favorire il babbeo che come una macchinetta si imbeve perché non è neppure così intelligente da porsi una sola domanda e avere una qualsiasi crisi cognitiva interiore. Per di più mettere un numero chiuso per poi fare adire ad un liceo scassato come quello italiano, è una presa per i fondelli. Ricorda la solenne porcheria del ministro democristiano Sullo,che spalancò demagogicamente tutte le facoltà possibili mettendo in un solo paiolo la scuola periti con il liceo classico ecc. , mentre non c’erano né insegnanti né aule né strutture per realizzare decentemente tale pensata.
cambiare urgentemente i politici( governo) e firmare petizione per Settis al quirinale (circola in rete…..) per pressioni dal basso abbiamo l’asso nella manica dei cinquestelle al parlamento