Anna Lombroso per il Simplicissimus

La sentenza della corte europea della quale ha esplorato contenuti e effetti Licia Satirico ieri a caldo su questo blog, ha suscitato reazioni scomposte e adirate nel fronte che rivendica il monopolio dei temi cosiddetti “etici”. Il ministro della salute Braccobaldo Balduzzi per illustrare il suo decretone tombale per l’assistenza pubblica sceglie la settimana teologica del Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale). Tutto il governo è impegnato a dettarci regole e diramare disposizioni per orientare i nostri stili di vita sulla base di criteri ispirati a una cristiana compostezza, a un evangelico rigore, a consuetudini punitive dopo che per anni eravamo stati sollecitati a costumi dissipati e usanze dissennate.

Qualsiasi istanza relativa a umane inclinazioni, attitudini personali, espressioni della personalità, viene liquidata con sussiego infastidito, come si trattasse di capricci di bambinacci malcresciuti , infantilmente indifferenti allo spirito del tempo che imporrebbe algida penitenza, quotidiano calvario e abiura di desideri, fantasie, ideali personali, perché ai poveri è proibito ormai anche di essere matti, per non dire dell’essere innamorati e del voler essere felici, in una sorta di “memento mori”, che peraltro ci vuole imporre anche modi e tempi per il trapasso, che anche quelli devono essere soggetti a una morale pubblica autoritaria, che considera sconsiderati optional le nostre scelte e aspirazioni esistenziali.

Ma sbaglierebbe chi pensasse che il nostro ceto dirigente fosse stato contagiato da un penitenziale neo trappismo, che l’istinto sia quello fare di una morale confessionale l’etica pubblica con cui innervare leggi e atti di governo per poi intriderne cultura e senso comune. Certo ieri Monti ha compito le sue due visite pastorali in vista dell’autunno ai suoi due decani – stato servo in chiesa prepotente, certo abbiamo un contesto partitico condizionato dalla presenza egemonica, parassitaria e arrogante dei cattolici prestati alla politica. Ed anche i pochi che fuori dal Parlamento rivendicano il primato della laicità, quando ci stanno dentro chinano l’orgogliosa testa in un doveroso sissignore, che la ragione di partito è più forte della ragioni della libertà e dei diritti.

La teocrazia alla quale sono entusiasticamente ubbidienti coincide certo e non casualmente con quella al cui servizio si muovono operosamente le gerarchie ecclesiastiche. Ma le loro divinità sono il mercato, il profitto, l’accumulazione, la ricchezza disuguale che ingenera altre più profonde disuguaglianze e inimicizia e conflitti e ostilità e risentimento e rancore. E in loro nome hanno spezzato violentemente vincoli antichi e sodalizi affettivi, avvilito la coesione sociale, irriso solidarietà e fratellanza come arcaici residui ideologici da spazzare via in virtù della loro modernità fredda e inesorabile, mettendo l’uno contro l’altro padri e figli, giovani e anziani, uomini e donne, precari e insicuri, creando gerarchie di diritti, graduatorie di legittime aspettative, trasformandole in oggetto di arbitrarie erogazioni e discrezionali elargizioni per pochi.

Della famiglia italiana, caposaldo sociale, uno di quei fondamentali sani che dovevano graziarci dal contagio della crisi, a loro interessano gli aspetti deteriori per non dire aberranti, indulgendo sul familismo “amorale”, accomodante anticamera del clientelismo e del traffico di influenza, sostituendo, al merito e al talento, l’affiliazione e la fidelizzazione, impiegando paura e lo stato di necessità per limitare lo stato di diritto. Dando spazio alle scorciatoie della trattativa privata, ai mezzucci delle regalie e dello scambio opaco di favori, tollerato anzi favorito come indispensabile in tempi di ristrettezze e evaporazione della legalità e di annebbiamento della trasparenza. Le famiglie sono comode: rimpiazzano i servizi e l’assistenza, la cura e l’accudimento. Integrano in precipizi di segreta disperazione malati e trasgressori, portatori di handicap e disturbati. Leniscono nella mutua circolazione di appartato dolore i mali di vivere e le malattie.

Le famiglie felici si assomigliano tutte, dice uno degli incipit più folgoranti della letteratura. E quelle infelici sono ognuna infelice a modo suo, si diceva. Pare che ora almeno su questo fronte viga l’uguaglianza, in una tremendo contagio di desideri frustrati, di solitudini crescenti, di convivenze coatte, di risentite fatiche incomprese. Con legami famigliari resi indissolubili e solidi dalla nuova povertà, che scoraggia la formazione di nuova famiglie, mentre gli scontri ideologici e confessionali riguardano concetti astratti e ingenerano conflitti virtuali lasciando nell’ombra i bisogni reali, economici, sociali, morali, affettivi.
Mentre la narrazione pubblicitaria, mediatica, idealizzata e “politica” ostenta vincoli radiosi, trasmette rituali festosi e redentivi, pare proprio che al pensiero unico si addica l’infelicità, sia congeniale in nemico in casa, sia proprio e desiderabile un nucleo familiare unito per forza, arroccato per difesa, stretto per bisogno, compatto per dovere, intento a contemplare miserie private eludendo la pubblica povertà.

Il racconto sociale quando spinge a crearsi una famiglia, auspica che si crei un sistema affettivo e sentimentale che renda più soggetti ai ricatti, più esposti alle minacce, più vulnerabili all’affronto della povertà e quindi più disposti all’ubbidienza, alla sottomissione, al conformismo. E che esprima ancora di più le disuguaglianze, introducendo incomparabilità tra le tutele, differenze inique tra garanzie, graduatorie crudeli dell’affetto, gerarchie inesorabili di diritti. Mentre l’amore ha bisogno di libertà, della felicità di mettere insieme quelle due mezze tazze la cui linee spezzate meravigliosamente e sorprendentemente coincidono, dell’indulgenza per le debolezze e dell’orgoglio per la forza, di canzoni cantate insieme e di fierezza nel guardare avanti.