Anna Lombroso per il Simplicissimus

essendo John il primogenito invece che di Spare ci accontenteremo di una confessione toccante rilasciata alla Stampa e nella quale la persona che l’Avvocato aveva scelto per traghettare nel nuovo millennio la sua dinastia, la Fiat e tutte le attività del gruppo racconta il passato e soprattutto il futuro della più importante famiglia del capitalismo italiano.
Elkann parla di tutto, dall’economia globale ai giornali, da Donald Trump a Giorgia Meloni, dal rilancio di Torino alle difficoltà della Juventus. E affronta anche il doloroso conflitto sull’eredità (le guerre intestine investono tutte le dinastie) in corso con sua madre Margherita Agnelli.
L’occasione è la celebrazione, a mezzo stampa di proprietà della stessa schiatta di infingardi parassiti, della morte del capostipite, ricordato per vizi convertiti in virtù da leader indiscusso: tracotanza, arroganza, cinismo, spregiudicatezza, i tic presentati come espressione di creativo anticonformismo, a cominciare dall’insensato uso di esibire l’orologio sopra il polsino come un qualsiasi Pippo non lo sa quando porta sopra il gilè la camicia, le abitudini usa e getta da sciupafemmine regale guardate con un’ammirata e invidiata indulgenza negata a altri consumatori finali.

L’anemico giovinotto fa sfoggio – è ovvio – di europeismo convinto nella sua veste di ideologia al servizio dell’impero d’oltreoceano, ripone fiducia nella prima donna premier e della sua missione di cambiamento e ci rassicura “dal 2003 ad oggi i ricavi dell’auto passano da 22 a 130 miliardi (dato che riguarda solo i primi nove mesi del 2022). I modelli crescono da 22 a più di 100, i marchi da 4 a 14. Le persone che ci lavorano erano 49 mila e ora sono 280 mila. Con Stellantis abbiamo valorizzato il marchio Fiat: la 500 elettrica dal prossimo anno sbarcherà negli Usa. Abbiamo rilanciato Maserati e Alfa, e stiamo rivalorizzando Lancia”.
E come non compiacersi, come tutte le stirpi seppure esangui per incroci, dissolutezza, capricci, anche gli Agnelli rivendicano un alto profilo morale, la loro missione al servizio del Paese che si traduce nella valorizzazione di principi e virtù nazionali, come il culto della famiglia: non a caso, si difende, a proposito di Stellantis “non abbiamo venduto niente: abbiamo anzi comprato Chrysler per creare FCA. E poi ci siamo fusi con PSA dando vita a un gruppo con una governance molto chiara: in Stellantis io sono il presidente esecutivo e al nostro fianco c’è una famiglia, la Peugeot a cui siamo legati da un accordo di consultazione”.

Perciò con la proverbiale riservatezza del suo lignaggio non entra nel merito di quei pettegolezzi da lavandaia che sono circolati, e non solo in merito alla vicenda Juventus: d’altra parte, dice il nipotino, “Gianni Agnelli amava i giornali”, riamato se tacciono scandali, corruzione, malaffare e invece si prodigano in giornate della memoria del Re rimpianto e osannato in vita e in morte, perfino con un florilegio, raccolto dal Corriere, di aforismi e frasi celebri venato di narcisismo, delirio di onnipotenza, libertinaggio e ipocrisia: «Si può far tutto, ma la famiglia non si può lasciare», «Il tifo unisce capitalismo e rivoluzione», «Per essere italiani nel mondo, dobbiamo essere europei in Italia», «Noi fabbrichiamo automobili, le fabbrichiamo in Italia e rappresentiamo Torino», «Il nostro dovere è prendere denaro dove c’è».
Non c’è limite alla sfrontatezza e al disonore: sempre il Corriere lo ricorda come il “monarca repubblicano”, ma c’è spazio anche per Vanity Fair che esplode i 10 motivi “per cui è ancora un riferimento imbattibile di eleganza Made in Italy”, a cominciare, si suppone, dal cinismo snob: «Chi si lamenta è un provinciale», «Se va bene alla Fiat, va bene all’Italia». Si racconta che temesse solo la noia, che contrastava con un dinamismo fino al simultaneismo, concesso dalla sua dimestichezza con i trasporti, il cui uso e abuso è rimasto a beneficio delle cerchie privilegiate fino all’irruzione dei voli low cost che hanno permesse alle cameriere di andare in mete esotiche oltre che di innamorarsi, status riconosciuto solo a loro.
Il fatto è che non sono solo i giornalisti prezzolati a sentirsi orfani: la potenza corruttrice di certi personaggi è stata esercitata nei confronti dell’opinione pubblica in misura solo di poco inferiore a quella del Cavaliere, più rozzo, più volgare, inadeguato a incarnare un mito e un’icona del privilegio meritato per censo e appartenenza al ceto dominante.

Le cronache del funerale fotografarono una città dimessa, mesta e ferita, privata di una figura di riferimento insostituibile che aveva alimentato – è un talento che gli va riconosciuto – la sua stessa leggenda, proponendosi come padre-padrone, imprenditore coraggioso pronto a investire coi nostri soldi e a profittare degli aiuti di uno Stato dileggiato come neghittoso, inconcludente, impotente.
Si videro sfilare i torinesi, capo chino, su per la salita e davanti al feretro, nell’esercizio di un culto della personalità che qualcuno rimpiange perché la mummia in vita oggetto di preghiere e gratitudine era in fondo migliore dei nostri contemporanei.
Non è così, è quella cerchia che ha prodotto quello che stiamo vivendo, povertà antiche e nuove, oltraggio dei diritti del lavoro, demolizione dello stato sociale, privatizzazioni, sfiducia e demoralizzazione. E’ proprio ora di abbattere certi monumenti.