Anna Pulizzi per il Simplicissimus

Il ritorno fulmineo dei talebani in tutto l’Afghanistan dimostra una serie di cose: primo, nel paese la popolazione rurale continua ad aderire alla visione islamista più radicale, esattamente come era accaduto durante la presenza sovietica. Secondo, l’intervento americano (con i loro valletti nella scia) non aveva alcuna intenzione di creare un sistema alternativo a quello esistente e la presenza delle forze più oscurantiste è sempre stata una costante all’interno dei governi-fantoccio di Kabul sotto ombrello occidentale. Terzo, alle milizie talebane sono costantemente arrivati armamenti di ogni tipo, provenienti dal Pakistan, dall’Arabia e spesso direttamente dalle forze regolari afghane, lungo lo stesso percorso esistente al tempo della guerriglia contro i sovietici, cioè dalle ditte produttrici americane fino, attraverso vari passaggi, agli utilizzatori finali.

Nulla di questa ventennale presenza straniera in Afghanistan può essere paragonato all’infelice tentativo sovietico intorno agli anni ‘80 del secolo scorso, caratterizzato dal tentativo di imprimere una svolta in senso laico e socialista alla società locale. La breve e fallimentare occupazione britannica a partire dal 1839 era nata invece con lo scopo di contenere la Russia nell’Asia centrale e impedire che il suo controllo si estendesse verso l’Oceano Indiano e qui qualche parallelo è tracciabile poiché gli eventi posteriori all’operazione Enduring Freedom dell’ottobre 2001, inizialmente limitata alle forze anglo-americane, pur giustificata mediaticamente come reazione al disastro delle Torri gemelle di un mese prima, può essere letta come un progetto di espansione verso l’Asia centrale ex-sovietica, da poco frantumatasi in una serie di nazioni indipendenti, lungo l’unica linea di penetrazione percorribile. Non più quindi un’azione contenitiva bensì un progetto offensivo sul fianco meridionale russo che se portato a compimento avrebbe avuto conseguenze assai dolorose per Mosca.

Difatti non appena assunto il controllo delle maggiori linee di comunicazione afghane, gli americani si installano anche in Uzbekistan, ottenendo la base di Karshi Khanabad, un tempo sovietica. Vi rimangono fino al 2005, quando il governo uzbeko li rimanda là da dove sono venuti, presumibilmente in virtù di pressioni russe. Altre basi e centri di addestramento vengono di volta in volta progettati o realizzati in Turkmenistan, Tagikistan e addirittura in Kirghizistan e Kazakistan, questi ultimi due paesi nemmeno confinanti con l’Afghanistan. La base di Manas in Kirghizistan, vicino al confine kazako, è a lungo oggetto di competizione tra Mosca e Washington, con il governo locale che continuamente pende verso il miglior offerente, fino a quando nel 2014 gli americani vengono costretti ad andarsene anche da lì.

Non vi è dubbio che la tentata penetrazione americana in Asia centrale a suon di dollari, dopo un inizio promettente, si è insabbiata definitivamente. Per la Russia ciò costituisce un’indubbia vittoria difensiva ma anche l’occasione per rafforzare i rapporti con le cinque repubbliche post-sovietiche nell’area. Inoltre basta un’occhiata alla carta geografica per capire che un esito differente sarebbe stata una sciagura anche per l’Iran, che sarebbe stato circondato da presenze militari ostili in ogni direzione. Il ritorno in questi anni dei vari –stan ex-sovietici in una posizione più favorevole a Mosca ha reso evidentemente inutile il possesso dell’Afghanistan in funzione di trampolino Usa verso nord e non è escluso che ciò abbia contribuito alla decisione di ritirarsi dal paese.

Certamente anche la guerriglia afghana ci ha messo del suo, ma in sostanza la coalizione occupante avrebbe potuto resistere a lungo e la sua situazione non era simile a quella patita a suo tempo dai sovietici. Le vie di transito dei rifornimenti che ai talebani giungevano lungo il confine pakistano potevano essere interrotte, naturalmente attraverso la collaborazione di Islamabad, cosa che i sovietici non avrebbero potuto ottenere. Inoltre i mezzi di controllo aereo odierni, che non necessitano nemmeno più della partecipazione umana diretta, sono molto più efficaci di quelli di quarant’anni fa. Se anche le forze della coalizione occidentale oggi non sono più utilizzabili per un prolungato conflitto a bassa intensità con il conseguente stillicidio quotidiano di perdite, resta il fatto che oggi è molto difficile muovere una forza motorizzata anche di ridotte dimensioni senza essere subito individuati e all’occorrenza colpiti. I paesi della coalizione non hanno mai dovuto affrontare grandi opposizioni interne al mantenimento dei loro contingenti né moti di piazza che chiedevano il rientro delle missioni militari. Le loro forze hanno avuto complessivamente 3500 morti in vent’anni, 175 all’anno: un salasso molto inferiore a quello sovietico e non certo ingentissimo in operazioni belliche, ma che diventa insopportabile se viene meno il motivo per cui bisogna subirlo.

Da oggi l’Afghanistan diventa ancor più di prima una riserva inesauribile di mercenari utilizzabili in ogni scacchiere, dalla Siria al Caucaso, dal confine iraniano a quelle repubbliche ex-sovietiche che l’Occidente non è riuscito a conquistare con la diplomazia ed il denaro. La Russia ha già dovuto inviare truppe ai confini meridionali dell’Uzbekistan e del Tagikistan, dove giungono in fuga anche i reparti dell’esercito regolare afghano in rapida disgregazione. Il pericolo non è certo immaginario e per gli americani in tutta evidenza è più conveniente utilizzare per i propri interessi geopolitici la guerriglia afghana che combatterla e trarne solo inutili perdite. A Kandahar ed altrove i talebani si sono impossessati di arsenali di armi di produzione occidentale, compresi addirittura aerei ed elicotteri. Inverosimile che nessuno abbia dato l’ordine di distruggere tutti i mezzi prima di evacuare le basi. Forse tutto ciò non sta avvenendo per la fretta di abbandonare il paese, dato che la decisione di andarsene era già stata presa da mesi e c’era tutto il tempo per fare ciò che andava fatto. Forse lasciare le armi lì come ricordo è una decisione che fa parte di precisi accordi tra gli emissari di Washington ed i capi talebani e dopotutto vi sono stati diversi incontri tra le parti nei mesi scorsi. Sembrerebbe dunque di assistere ad una sorta di passaggio di testimone tra i reparti della coalizione ed i talebani, che possono assicurare lo stato di tensione permanente contro i vicini del nord, soprattutto se gli Usa si impegneranno nel mantenerlo vivo, costringendo Mosca ad un impegno costante non solo di natura militare ma soprattutto economica, per impedire che qualche repubblica confinante si trasformi in uno stato ostile. Dopotutto fare le guerre col sangue degli altri è da tempo la via d’uscita abituale di un impero che non riesce più a vincerle.