Anna Lombroso per il Simplicissimus

L’aula di Montecitorio  ha approvato ieri la risoluzione di maggioranza che autorizza le missioni militari all’estero e che indirettamente  stabilisce la piena vigenza dell’accordo  bilaterale di cooperazione con la Guardia costiera libica.

La mascherina a coprire tanta indecente sfrontatezza è rappresentata dalla richiesta, rivolta al governo di Draghi, che proprio a  ridosso dell’insediamento aveva trovato il modo di apprezzare l’azione svolta dai supporter dei trafficanti di schiavi, autori e complici secondo il segretario generale dell’Onu di sparizioni, esecuzioni, torture e invio degli intercettati  ai lavori forzati nei campi di prigionia ufficiali, di verificare la “possibilità che dalla prossima programmazione vi siano le condizioni per superare la cooperazione con la Guardia costiera libica, trasferendola alla missione dell’Unione europea Irini.

Per dirla tutta, la decisione vuol dimostrare che non c’è più bisogno di dare un po’ di guazza alle riducibili anime belle che hanno smesso ormai di preoccuparsi per le stragi nel Mediterraneo, a fronte dell’obbligatorietà  di consolidare la presenza militare in qualità di lacchè della Nato e perfino di Macron – che ormai fa concorrenza al Presidente del Consiglio in veste di commissario carolingio dell’Italia –  per concorrere alla spoliazione e allo sfruttamento del continente africano, come dimostrato dal rafforzamento della base in Niger che prima  dividevamo in una umiliante coabitazione coi francesi, e che, come al solito viene rubricata come    rinnovato impegno per contrastare l’Isis e altre organizzazioni jihadiste e terroriste, pericolo che fa il paio con il prossimo arrivo degli extraterresti.

La presidenza del malconcio Biden, i suoi deliri senili per propagandare le fantasie degli apparati americani sulla “intimidazione russa” e sulla “sfida sistemica della Cina”, reagisce al manifestarsi sempre più grave dei sintomi dei suo declino con la rivitalizzazione della missione imperiale, che pretende dai suoi vassalli incremento di spese e mobilitazione bellica in forma di alleanza collettiva “contro le minacce globali e di difesa delle democrazie occidentali”, tutti insieme, Europa con  l’Arabia Saudita, a cui gli Usa vendono stock di armi, con Israele che occupa illegalmente i territori palestinesi da oltre 50 anni, a fianco  del golpista Al Sisi beneficiario di  170 missili tattici americani per un valore di 197 milioni di dollari, o del sultano che serve anche se è maleducato e non fa sedere le signore al suo cospetto.

È con loro che si dovrebbe usare il termine negazionismo, delle colpe e dei crimini commessi nei terzi mondi esterni che oggi vengono replicati su scala all’interno degli stati che applicano paradigmi e criteri coloniali per estrarre beni ricchezze e risorse e per piegare intere popolazioni di connazionali colpevoli di patire un ritardo che ha permesso l’arricchimento e la supremazia di aree “superiori”.

L’atto a un tempo brutale e ipocrita commesso ai danni dei libici,  supera però qualsiasi limite imposto dal bon ton delle diplomazie, che hanno rimosso i rapporti della corte penale dell’Aia e le denunce dell’Onu, permettendo che la Libia resti un campo di prigionia a cielo aperto, “dove peggiorano le condizioni degli stranieri e si aggravano quelle dei nazionali. Tutti accomunati dal più generale contesto di «abusi e gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario  nella totale impunità».
Ed è noto che nel 2017 l’ufficiale accusato dagli investigatori Onu di essere un capobanda nella triplice veste di miliziano-guardacoste-trafficante era stato accolto in Italia per una serie di incontri in sedi istituzionali e che negli anni successivi le attività del comandante al-Milad, nome di battaglia Bija, sono state sostenute da tutto il succedersi di esecutivi  nazionali e dall’Unione Europea prodighi di equipaggiamento e sostegno politico-economico alla Guardia costiera.

Sono trascorsi poco più di quattro anni sono trascorsi da quando il governo italiano guidato allora da Gentiloni ha sottoscritto il Memorandum e di seguito gli accordi sulla Guardia Costiera “finalizzati a bloccare il flusso delle partenze a bordo dei barconi”, in modo da ricondurre i profughi nei campi di detenzione dove violenze, torture, stupri non si interrompono, più di un anno da quando il Governo Conte 2 lo ha rinnovato  con l’impegno a modificare il testo per inserirvi garanzie a tutela dei diritti umani, oggi contraddetto e ridicolizzato platealmente dall’ipotesi  di subappaltare la tragedia ad altri, a caro prezzo e pagando il disonore  come accade con la Turchia.

E sono trascorsi dieci anni e poco più da quel marzo 2011, quando le forze Usa/Nato iniziano il bombardamento aeronavale della Libia, con la regia degli Usa  prima tramite il Comando Africa, poi direttamente con la Nato che in sette mesi  effettua 30 mila missioni aeree, di cui almeno 10 mila di aggressione sotto forma di lancio di oltre 40 mila bombe e missili. L’Italia che già prima dell’offensiva aeronavale, aveva finanziato e armato fazioni tribali e gruppi islamici ostili al governo, provvedendo a favorire l’infiltrazione di forze speciali, mercenari e contractor  per  promuovere e incrementare  gli scontri armati all’interno del Paese, con il consenso quasi unanime  del Parlamento accorre per aggiudicarsi una posizione autorevole, mettendo a disposizione le sue basi aeree (Trapani, Gioia del Colle, Sigonella, Decimomannu, Aviano, Amendola e Pantelleria), i suoi   Tornado, Eurofighter e altri, la portaerei Garibaldi e altre navi da guerra.

Oggi ancora meglio si capisce che l’intento era quello di cancellare la presenza di uno Stato africano,  che, a detta della stessa Banca Mondiale, aveva consolidato  «alti livelli di crescita economica», con un aumento del pil del 7,5% annuo, e che registrava «alti traguardi di sviluppo umano tra cui l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e, per oltre il 40%, a quella universitaria», dove il tenore medio di vita era superiore a quello degli altri paesi africani, dove due milioni di immigrati africano avevano trovato lavoro  e dove la bilancia commerciale era in attivo di 27 miliardi di dollari annui, permettendo allo Stato di investire all’estero circa 150 miliardi di dollari anche grazie alla creazione di  tre organismi finanziari: il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria); la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli, intesi a concorrere a un mercato comune e una moneta unica dell’Africa.

Ci sono stati tempi nei quali si pensava che la cattiva coscienza coloniale dell’Occidente avrebbe messo in moto un processo di “riabilitazione” e risarcimento.

Macchè, tanto per restare in casa europea si sono moltiplicate le criminali operazioni finanziarie e militari in Centrafrica di tutti settennati di presidenze francesi. E da noi mentre dibattiamo se sia onorevole abbattere la statua dell’arguto giornalista che si compra la vergine o innalzare invece un monumento a Graziani, le nostre multinazionali  si rendono complici di  disastri ambientali, economici e sociali in diversi paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina (basti pensare a Benetton in Amazzonia, all’ENI in Libia e altrove, alle esportazioni di armamenti e rifiuti ovunque e recentemente anche in Tunisia, sotto la bandiera della cooperazione e dell’esportazione di democrazia concordata con tiranni sanguinari e despoti criminali, favorendo l’uso strumentale sistematico da parte dei decisori e del “mondo di impresa” del fenomeno migratorio per scatenare una guerra fra poveri combinando l’imposizione di standard di sfruttamento disumani della forza lavoro straniera e l’indebolimento del potere contrattuale della forza lavoro autoctona, insieme all’aggravamento delle condizioni di vita delle periferie, già impoverite dalla crisi e nelle quale si sono convogliati  masse ancora più disperate.

È che la vogliono così l’Africa, umiliata, sfruttata, ricattata, intimorita e disperata. Proprio come vogliono noi, contando sul fatto che quando c’è la necessità non c’è liberta e neppure reazione.