Una delle caratteristiche per non dire delle piaghe di questo Paese è quella di non voler mai fare i conti con se stesso fino in fondo, di affrontare colpe e responsabilità collettive, e dunque anche quella di non riuscire davvero a chiudere i capitoli della storia, né di aprirne di davvero nuovi. E’ un Paese che si nasconde salvo accendere futili micce che per qualche momento sono il suo sole per poi ridursi in cenere. Adesso per esempio, in tempi di antifascismo neo liberista, si è accesa la diatriba sulla possibile dedica di un strada di Erba ad Alberto Airoldi, podestà della cittadina ai tempi del ventennio, ma anche animatore della sua vita culturale e fondatore del teatro Licinium, tuttora uno dei pochissimi all’aperto assieme all’Arena di Verona. Diciamo che tra tanti fascistoni del passato e del presente forse Airoldi non dovrebbe essere l’obiettivo principale dell’aspra battaglia esplicitamente diretta contro Salvini, tuttavia questa polemica di respiro asfittico mi dà l’occasione per mettere il dito in quella piaga di cui parlavo prima.
Ora si dice che il personaggio, ricordato anche come poeta dialettale, abbia avuto un ruolo determinante nel segnalare gli ebrei ai nazisti, non nel senso che sia andato dal più vicino Standartenführer der SS per fare i nomi, ma che forse (non esistono testimonianze precise su questo) nel ’39 aveva scritto un un opuscolo dal titolo «Elenco di cognomi ebraici», dove venivano enumerate le famiglie ebraiche del territorio comasco “fuori dai confini del comune di sua competenza” che a leggere le cronache pare la colpa più grave. Il che avrebbe facilitato l’opera di rastrellamento durante la guerra. Ora anche questo fa veramente ridere e piangere per due ragioni: la prima è che quel capolavoro di idiozia sotto ogni punto di vista che fu il manifesto della razza venne contestato solo da uno sparuto drappello di intellettuali – che tra l’altro fecero più fatica a reintegrasi nel dopoguerra rispetto a quelli che si mostrano entusiasti dell’abominio – e che le conseguenti leggi razziali furono scrupolosamente osservate dappertutto e dunque costituiscono una macchia collettiva che di certo non può essere cancellata con il sacrificio di qualche capro espiatorio di paese. In secondo luogo l’opuscolo di Airoldi, anche ammesso che fosse stato lui a scriverlo, non è certo un unicum, elenchi di questo tipo erano numerosissimi in Italia e in tutta Europa nella prima metà del secolo scorso e principalmente erano opera proprio delle comunità ebraiche che ovviamente non potevano prevedere ciò che sarebbe accaduto. Esistevano anche elenchi su base nazionale come “ I cognomi degli ebrei in Italia” di Samuele Schaerf: dunque i “nazisti” che forse sarà bene ricordarlo, erano alleati del fascismo e dunque non dovrebbero essere presi come fossero perversi alieni capitati nello Stivale per caso, come suggerisce da sempre l’irresponsabilismo italiano, non avevano affatto bisogno di Airoldi come dice la sciocca tesi di giornata, tanto più che potevano disporre delle prime tecnologie informatiche, grazie all’Ibm, società creata in America da un tedesco che poi rientrò in Germania fondandovi una consociata, la Dehomag ( Deutsche Hollerith-Maschinen Gesellschaft). Certo fa impressione che i primi vagiti dell’informatica si siano avuti con la schedatura di massa degli ebrei, ma forse è bene non dimenticarlo o nasconderlo.
Chiarito questo punto e superata la fase dell’antifascismo dilettante e rituale, c’è anche un’altra cosa da dire: quando c’era l’ Ulivo e non Salvini, al teatro Licinium era stato posto un cippo in ricordo di Airoldi senza che la cosa suscitasse alcuna polemica per il fatto – udite udite – si trattava solo di un omaggio culturale come dicono i giornali che s’indignano. Ora non vedo che differenza ci sia tra un cippo e una via, ma colpisce il fatto che fascismo e antifascismo non siano considerate cose che abbiano a che vedere con la cultura, evidentemente con qualcos’altro, che ne so, con l’arte culinaria o il cucito: ecco dove casca l’asino della pretestuosità, tanto più che ci sono esempi ben più corposi proprio in quell’ambiente che si dice antifascista: qualcuno ricorda che Rutelli voleva intitolare una via di Roma a Giuseppe Bottai (vedi nota) il gerarca animatore della vita culturale ( a lui si devono le leggi per la tutela del patrimonio storico – artistico e naturale del Paese) dentro il fascismo e persino dentro il nascente antifascismo di matrice liberale, ma anche gerarca fedelissimo fino alla notte del 25 luglio 1943, governatore di Addis Abeba, nonché firmatario del manifesto della razza? E l’Anpi che adesso si mobilita per Airoldi cosa fece quando venne eretto ad Affile – distraendo 130 mila euro di fondi regionali di cui né Marrazzo, né Zingaretti hanno mai chiesto ragione – il mausoleo a Rodolfo Graziani capo militare della Rsi, notissimo boia che in Etiopia massacrò molte decine di migliaia di civili con stragi di fronte alle quali Marzabotto o le Fosse Ardeatine sono bazzecole? Il mausoleo è sempre lì a imperituro ricordo di un pessimo comandante, disprezzato da Rommel che ne chiese ed ottenne la giubilazione, un massacratore pazzo che inviava a Roma foto con il pene in vista per dimostrare virilità, mentre faceva ammazzare a colpi di spranga la popolazione di interi quartieri della capitale etiope. Se la popolazione di Affile ci tiene si accomodi, perché così dimostra quanto vale- E tuttavia Graziani ha fatto solo 4 mesi di galera (come del resto anche Bottai). Ah già, dimenticavo, quelli erano negri, dunque non contavano veramente nemmeno per gli antifascisti del dopoguerra.
Ora Airoldi fu certamente un fascista e l’idea di intitolargli una via non è proprio un capolavoro di intelligenza politica, se Erba lo volesse davvero ricordare dovrebbe piuttosto dare più finanziamenti al suo teatro che vive tra miserie e splendori, dopo essere stato coinvolto nell’Expò 2015, cippo compreso. Ma fu fascista come lo fu tutta l’elite italiana che di fatto non subì alcuna conseguenza per la sua militanza. Airoldi siamo anche noi che partecipiamo della banalità del male così come quella del bene.
Nota La figura di Bottai è particolarmente interessante perché dopo essere stato per vent’anni tra i massimi dirigenti del Partito nazionale fascista con particolare riferimento alle politiche corporative, fuggì dal Paese essendo stato condannato a morte nel processo di Verona, si arruolò nella legione straniera e tornò in Italia solo dopo l’amnistia Togliatti. Nel ’51 sotto mentite spoglie lo troviamo direttore de “Il Popolo di Roma”, un quotidiano finanziato da Vittorio Cini per fiancheggiare il centrismo democristiano. Morì nel 1959 e ai suoi funerali partecipò anche Aldo Moro il futuro propugnatore del compromesso storico, poiché suo padre, Renato Moro , era stato tra i collaboratori di Bottai. Insomma attraverso di lui si intuiscono tutti i percorsi carsici e nascosti della politica italiana che arrivano fino ai nostri giorni.
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https://it.sputniknews.com/opinioni/201907157879995-taci-la-nato-ti-osserva-e-si-prepara/