La parola economia è un falso storico, è il risultato di una torsione di significati avvenuta da due secoli, non dissimile da quella a cui va incontro oggi la democrazia. Ed è anche la prima moneta falsa del capitalismo. Quando ci si illuse di poter fondare una dottrina economica con l’ambizione di farne una “scienza dura” come la fisica, si dovette mostrare come le stesse regole avessero un valore universale al di là delle culture e del tempo. Così si impose man mano il nome di economia come sintesi di tutto ciò che riguardava lo scambio e il mercato, mentre nel mondo antico tutto questo andava sotto il none di crematistica e l’ oikonomìa era l’arte di armonizzare le proprie cose, i rapporti e la conduzione dello stato.

La questione è tutt’altro che relegata all’etimologia, ma coinvolge il cuore della questione  sociale, della democrazia, del lavoro e del senso del’esistenza: con l’affermaresi della parola economia si intendeva dire qualcosa che oggi appare finalmente e amaramente chiaro: che i rapporti di produzione e di scambio  sono l’unica realtà possibile e tutto il resto è residuale. Che tutto compresa natura, denaro e uomini non ha altro significato e ruolo che quello di essere merce, ancorchè tutte e le tre cose siano il fondamento dell’esistenza stessa del concetto di merce. Dunque tutto ciò che non concerne questa natura di scambio non è altro che un ostacolo, un  intralcio allo scambio lo stesso: lo stato, i diritti, il significato del vivere sono lacci e lacciuoli in questa rapace e desolante visione.

Il problema alla fine è se l’economia debba assoggettare l’uomo o non sia che un aspetto della sua vita e vada assoggettata all’uomo. Gli economisti, almeno quelli meno intelligenti,  hanno perfettamente ragione quando sostengono che il mercato è il regolatore universale (un’idea – detto per inciso – nata per analogia alle valvole regolatrici delle prime macchine a vapore). Ma questa ragione è anche, epistemologicamente e umanamente, la loro menzogna: i mercati autoregolano sì, ma solo i mercati. Il resto , tutto il resto viene anzi sregolato e deformato, impacchettato e costretto a diventare merce.

In questo primo maggio che da festa dei lavoratori è divenuta la festa ai lavoratori, forse vale la pena rendere onore ad uno dei grandi demistificatori della società di mercato, l’economista e antropologo ungherese (o in senso più culturale, austroungarico) Karl Polanyi autore de “La grande trasformazione” uscito nel ’44, libro allo stesso tempo celebre e sconosciuto, oscurato prima dalla battaglia tra economia di mercato ed economia marxista e dopo dalla pervasività del pensiero unico, ma sempre in agguato dove esiste l’onestà e l’intelligenza del dubbio.   Sembra un testo scritto apposta per l’oggi, nel tempo in cui il capitalismo finanziarizzato, mostra gli artigli giocando al ribasso sulla dignità e di tutto ciò che si oppone alla sua logica.

Cosa dice Polanyi? Una cosa evidente che fa parte della vita concreta e non delle astrazioni scorrette da cui è ossessionata la crematistica attuale:  che “l’economia è quindi inserita e coinvolta [embedded ] in istituzioni di natura economica e non economica. La presenza di istituzioni non economiche è di importanza decisiva”. La sostanza è che “i rapporti interpersonali basati sul dare e sul ricevere sono incorporati in una vasta rete di impegni sociali e politici che non consentono agli individui di massimizzare i vantaggi economici ottenuti in queste relazioni”. Si tratta per l’appunto di tutto ciò che oggi si vorrebbe spazzare via.

L’antropologo e storico Polanyi osserva che al contrario di quanto postulato dall’economia classica e assolutizzato poi da quella neoclassica esisto diversi tipi di scambio: 1) il mercato caratterizzato da scambi impersonali regolati da un equivalenza numerica determinata dalla moneta ; 2)  la reciprocità che dà luogo ad uno scambio non mediato dalla moneta  tra  partner o comunità che  non  sono  legati  necessariamente  da vincoli economici; 3)  la  redistribuzione  generata  quando  un  centro  politico  è  in grado  di  raccogliere  risorse  e  distribuirle  secondo  criteri definiti tra tutti i membri della società. Dunque il cosiddetto mercato è solo un aspetto delle relazioni e non è affatto qualcosa che rifletta una natura mono dimensionale umana. In questo senso l’economia ridiventa oikonomia.

In essa, in questa forma ritrovata di complessità, si ritrova l’idea di diritto universale, di classe, di interesse diverso rispetto a quello immediato, si ritrova la speranza, l’utopia, la crescita e persino l’affettività. Ciò che gli Adam Smith ritenevano una forma di scambio “naturale” si rivela invece un banale riduzionismo, un innaturale ritaglio funzionale agli interessi delle incipienti classi dominanti. E ciò che verrà poi con la scuola mercatista secondo cui l’economia è solo la massimizzazione razionale delle risorse scarse per soddisfare bisogni e fini individuali, non è che un assurdo perché postula bisogni e fini di cui non fornisce ragioni se non il postulato della loro esistenza, perché crea un universo di monadi che hanno finestre solo sul mercato e alla fine si rifugia nell’orrenda tautologia che l’unico fine del mercato è il mercato stesso.

Mi piacerebbe poter allegare in pdf tutto il testo se ciò non andasse contro gli interessi di mercato della Einaudi ancorché faccia parte dei bisogni individuali e collettivi di conoscenza. Ma almeno un piccolo  brano lo voglio riportare, qualcosa che pare scritto oggi, in questo giorno di  festa del lavoro che vive l’aggressione al lavoro.

“L’autoregolazione implica che tutta la produzione è in vendita sul mercato e che tutti i redditi derivano da queste vendite. Di conseguenza vi sono mercati per tutti gli elementi dell’industria, non soltanto per le merci (sempre com- prendenti i servizi) ma anche per il lavoro, la terra e la moneta, ed i loro prezzi vengono chiamati rispettivamente prezzi delle merci, salari, rendita ed interesse. I termini stessi indicano che i prezzi formano i redditi: l’interesse è il prezzo dell’uso del denaro e forma il reddito di coloro che sono nella posizione di poterlo fornire; la rendita è il prezzo dell’uso della terra e forma il reddito di coloro che lo forniscono; i salari sono il prezzo dell’uso della forza-lavoro e formano il reddito di coloro che la vendono; i prezzi delle merci infine contribuiscono ai redditi di coloro che vendono i loro servizi imprenditoriali, il reddito chiamato profitto essendo la differenza tra due gruppi di prezzi, il prezzo delle merci prodot- te ed i loro costi, cioè il prezzo dei beni necessari alla loro produzione. Se queste condizioni risultano soddisfatte tutti i redditi deriveranno dalle vendite sul mercato ed essi saranno giusto sufficienti a comprare tutte le merci prodotte.

Segue un altro gruppo di assunti relativi allo stato ed alla sua politica. Non si deve permettere niente che ostacoli la formazione di mercati né si deve permettere che i redditi si formino altrimenti che attraverso le vendite, né deve esservi alcuna interferenza con l’aggiustamento dei prezzi alle mutate condizioni del mercato, siano i prezzi quelli delle merci prodotte, del lavoro, della terra o del denaro. […] Sono corrette soltanto quelle iniziative e quelle misure che contribuiscono ad assicurare l’autoregolazione del mercato creando condizioni che rendono il mercato la sola forza organizzatrice nella sfera economica. […] Il punto cruciale è questo: lavoro, terra e moneta sono elementi essenziali dell’industria; anch’essi debbono anche essere organizzati in mercati poiché formano una parte assolutamente vitale del sistema economico; tuttavia essi non sono ovviamente delle merci, e il postulato2 per cui tutto ciò che è comprato e venduto deve essere stato prodotto per la vendita è per questi manifestamente falso. In altre parole, secondo la definizione empirica di merce essi non sono delle merci. Il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa la quale a sua volta non é prodotta per essere venduta ma per ragioni del tutto diverse, né questo tipo di attività può esse- re distaccato dal resto della vita, essere accumulato o mobilitato. La terra è soltanto un altro nome per la natura che non è prodotta dall’uomo, la moneta infine è soltanto un simbolo del potere d’acquisto che di regola non è affatto prodotto ma si sviluppa attraverso il meccanismo della banca o della finanza di stato. Nessuno di questi elementi è prodotto per la vendita. La descrizione, quindi, del lavoro, della terra e della moneta come merce è interamente fittizia.

È nondimeno con il contributo di questa finzione che sono organiz- zati i mercati del lavoro, della terra e della moneta; questi vengono di fatto com- prati e venduti sul mercato, la loro domanda e la loro offerta sono grandezze reali e qualunque misura o iniziativa politica che impedisca la formazione di questi mercati metterebbe ipso facto in pericolo l’autoregolazione del sistema. La finzione della merce, perciò, fornisce un principio di organizzazione vitale per tutta la società […] si tratta cioè del principio secondo il quale non si dovrebbe permettere l’esistenza di nessun’organizzazione o comportamento che impedisca l’effettivo funzionamento del meccanismo di mercato sulla linea della finzione della merce.

Tuttavia per quanto riguarda lavoro, terra e moneta un tale postula- to non può essere sostenuto; permettere al meccanismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto porterebbe alla demolizione della società. La presunta merce «forza-lavoro» non può infatti esse- re fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva di impie- go, senza influire anche sull’individuo umano che risulta essere il portatore di questa merce particolare. Nel disporre della forza-lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l’altro dell’entità fisica, psicologica e morale «uomo» che si collega a questa etichetta. Privati della copertura protettiva delle istituzioni culturali, gli esseri umani perirebbero per gli effetti stessi della società, morirebbero come vittime di una grave disorganizzazione sociale, per vizi, perversioni, crimini e denutrizione. La natura verrebbe ridotta ai suoi elementi, l’ambiente ed il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati, la sicurezza militare messa a repentaglio e la capacità di produrre cibo e materie prime, distrutta. Infine, l’amministrazione da parte del mercato del potere d’acquisto liquiderebbe periodicamente le imprese commerciali poiché le carenze e gli eccessi di moneta si dimostrerebbero altrettanto disastrosi per il commercio quanto le alluvioni e la siccità nelle società primitive. Indubbiamente i mercati del lavoro, della terra e della moneta sono essenziali per un’economia di mercato, ma nessuna società potrebbe sopportare gli effetti di un simile sistema di rozze finzioni a meno che la sua sostanza umana e naturale, oltre che la sua organizzazione commerciale, fossero protette dalle distruzioni arrecate da questo diabolico meccanismo.”