Anna Lombroso per il Simplicissimus
1 maggio, prima che diventi una stanca liturgia, un’altra sfinita giornata della memoria, quella del lavoro in un Occidente senza lavoro, sarebbe bene integrarlo con il 7 ottobre, Giornata mondiale del Lavoro Dignitoso, promossa dalla Confederazione Internazionale dei sindacati e poco propagandata forse poiché auspica – più che commemorare – un lavoro in sicurezza, un salario rispettoso della persona e dei suoi bisogni, la possibilità di uno sviluppo professionale, pensioni accettabili, diritti fondamentali insomma che oggi sono stati retrocessi a desideri di popoli viziati o privilegi di pochi beneficiati e protetti.
Non occorre Bakunin per dire che l’ideologia forte e il suo caposaldo irrinunciabile, la flessibilità, privano il lavoro della dignità e ci riportano nel passato più iniquo, una contemporaneità regressiva e recessiva dove un proletariato globale vive un’esistenza mutilata di diritti, esposto a orari, condizioni ambientali, rischi e sottomissione ai padroni, disconoscimento sociale.
Un capitale flessibile, che cerca solo rendimenti più elevati, quello che si ottiene dalle transazioni speculative, impone un lavoro precario, instabile, occasionale. Esige che i lavoratori diventino una moltitudine di schiavi da spostare, rimuovere, cancellare come pedine di un feroce e implacabile gioco da tavolo.
Il succedersi dei nostri governi nazionali si è prodigata per questo alla faccia del fastidioso e arcaico dettato costituzionale, moltiplicando le tipologie di lavoro flessibile, estendendo l’applicazione di contratti atipici: lavori in affitto, pacchetto Treu, legge Biagi, decreti attuativi hanno dato forma e 45 informi patti in deroga di diritti, conquiste e garanzie in modo che modi e forme dell’occupazione assomigli sempre di più alla rapidissima e immateriale circolazione di capitali, si forgi ai suoi obblighi con donne e uomini ridotti a merce, comprati, ceduti, affittati scambiati come un utensile, una macchina, un attrezzo. Il 75% dei nuovi “assunti” da noi come in gran parte dei Paesi, che stanno dimenticando il benessere e la qualità dell’esistenza, sono i condannati all’instabilità, gli “avviati” con contratti di breve durata e perenne incertezza, facilmente cancellabili e sicuramente non rinnovabili.
Così i salariati della precarietà, gli incerti per legge sono diventati una comunità di destino e il territorio dei senza lavoro sconfina nel Paese diventando sempre più esteso e disperato. Perché il rapporto causa effetto tra flessibilità e creazione dei posti di lavoro è l’inganno più mistificante delle nuova dottrine, se perfino l’Ocse riconosce che non esiste alcuna evidenza empirica consolidata che attesti “una correlazione significativa tra lavoro flessibile e incremento dell’occupazione”.
Alla ex Bertone, a Pomigliano, a Mirafiori, in quelle che parevano le isole sicure del tempo indeterminato, per anni si è lavorato una settimana al mese, le retribuzioni sono scese da 1200 euro a 750, i lavoratori sono stati sommersi dalla provvisorietà della cassa integrazione, dall’oltraggio del prepensionamento obbligatorio, dall’umiliazione affamatrice del sussidio, dalla continuità avvilente dei piani di mobilità, che paradossalmente diventano l’allegoria ignava della condanna a restare per sempre dove si è nati, paralizzati sul proprio gradino della scala sociale quando non si è costretti a scivolare più giù.
Chissà come sarà – se sarà – quando questo frenetico circolare di soldi finirà, quando i pochi arricchiti si troveranno a fare i conti con l’esercito di poveri nei paesi ricchi e in quelli già oggi poveri. Quando ci si renderà conto che il mondo può e deve procedere non con i soldi, ma con il ferro e il grano e le patate, con la produzione cioè di merci reali, pane, seggiole di legno, bicchieri vetro per bere vino buono, ché la vita è troppo breve per accontentarsi del vino cattivo. Quando la crisi sarà finita, comunque il mondo risulterà diverso da quello degli anni precedenti, nel mondo, in Europa, in Italia. Vi sarà una diversa distribuzione del benessere, alcuni paesi ricchi e potenti lo saranno di meno, nuove popolazioni e domande faranno irruzione e allora bisognerà ricominciare a diffondere la cultura del fare, del fabbricare, del lavorare la terra rispettandone la vulnerabile natura limitata e delicata. Oggi le fabbriche dove la colata di acciaio rovente era il simbolo della modernità dinamica, magnifica e progressiva sono ridotte a ruderi, santuari dell’archeologia industriale e delle speranze di sviluppo equilibrato. Quelle ancora “vive” sono diventate porose, con spazi abbandonati che echeggiano frastuoni lontani e disumani. Perché non è scomparso il lavoro manuale, nemmeno si è fatto più leggero, semplicemente è evaporata la sua forza aggregante nell’impassibilità degli impianti, nell’indifferenza di chi sta fuori, nel gigantismo di strutture diventate più grandi rispetto a uomini più piccoli, in quanto più soli, più insicuri, più abbandonati.
Succede così di questi tempi e succederà se non ridiventiamo uomini e cittadini. Quello che accade è mostruoso e mette in forse la civiltà, certo, e l’umanità se si restringe alla ricerca ossessiva di campi sempre nuovi dell’esistenza e della natura per trasformarle in denaro: prospettive di vita, istruzione, cura, cultura, perfino il genoma non è più nostro, nella hýbris di assoggettare un processo universale che ha dietro di sé miliardi di anni e forse molti altri, se non hanno ragione i maya, a un dominio privato dove conta solo la monetizzazione, lo scambio finanziario, la creazione di denaro illusorio e ingannatore come quello del baro.
Bisogna che ci ribelliamo al destino di vittime, di prede di questa caccia accanita, ingorda e belluina a ogni angolo del nostro paesaggio naturale, sociale e personale perché sia traducibile in oro o princisbecco, purchè commerciabile e accumulabile. Compreso il nostro sudore, le nostre lacrime, i nostri canti di libertà, i nostro sorrisi, le nostre speranze. Non basta ricordarli il Primo Maggio, devono ricominciare a cantarci dentro con rabbia.
Mi associo a chi ha espresso così bene il proprio grazie.
Arare il terreno della nostra consapevolezza con l’ indignazione per immettervi parole come queste è già un bel lavoro politico.
Il quadro della situazione è esatto e completo. Ora si tratta di uscire da questa situazione. Non è impossibile se si parte dal presupposto che non dobbiamo fare affidamento sui nostri politici di mestiere (di qualsiasi partito siano) che vivono e si alimentano sulle macerie della nostra società. Dovremmo considerare lo stato e l’economia ufficiale come “estero” e ricostruire una nostra nazione basata sul lavoro e sulla solidarietà sociale. Se ci pensate bene non è difficile farlo, occorre solo la buona volontà. E sarebbe opportuno partire da quanti hanno più pesantemente subito i danni di questa economia.
Ricordo che l’economista Savona (ex direttore generale di BNL post crisi irachena) sottosegretario al Tesoro in una conferenza presso l’Artigiancassa all’inizio del millennio ebbe a dire che siccome non potevamo competere con i paesi emergenti (India Cina e Brasile) l’Italia doveva eliminare il settore industriale e sviluppare quello finanziario. Questa è la politica dei nostri governi di destra e di centro sinistra, si tratta di incompetenti che ci mandano al macello.
buon post…
Nonostante tutto io spero che su questa società arata e disboscata dal cinismo del profitto dei pochissimi e di cui hai scritto si possano iniziare a seminare parole come le tue. Spero e voglio credere che ci sia un margine pulito che accolga questi semi. “Quando ci si renderà conto che il mondo può e deve procedere non con i soldi, ma con il ferro e il grano e le patate, con la produzione cioè di merci reali, pane, seggiole di legno, bicchieri vetro per bere vino buono, ché la vita è troppo breve per accontentarsi del vino cattivo …” In questo è la nostra speranza e il nostro I° maggio. E’ con grande emozione che ringrazio ancora.
Grazie a te condividere consola
Grazie per questo articolo. Condivido completamente.