Non so se a qualcuno è capitato di leggere, per curiosità o per studio, i bollettini di guerra: ci si rende conto che si tratta di una forma di letteratura, anche piuttosto raffinata perché la fattualità disarmante ed elementare degli eventi, è sostenuta da una narrazione nella quale non esiste la sconfitta, ma tutto si configura come vittoria, presente, potenziale o futura.
Però non c’è bisogno di scartabellare gli archivi (o anche internet dove pure c’è moltissimo materiale), basta leggere le dichiarazioni di Draghi, di Monti, delle autorità europee sulla straodinaria vittoria nella “campagna di Grecia”: una completa sconfitta della linea di azione perseguita da più di due anni, viene presentata come una folgorante vittoria per la quale i protagonisti esigono la medaglia.
E naturalmente così come gli sciocchi e gli illusi si aspettavano l’arma segreta alla fine del ’44, così pure oggi i titubanti sono allettati dalle fanfare. Tuttavia la verità è un’altra, facile e così chiara che brilla come un sole di mezzanotte o se preferite è così evidente come un buio a meggogiorno: lo swap ossia la sostituzione dei vecchi titoli di stato Greci con i nuovi che valgono abbondamente meno della metà, è di fatto un default controllato, il primo di una serie e l’operazione ha avuto così successo proprio perché gli stessi che si autolodano hanno ridotto la Grecia talmente male che l’unica alternativa era tenersi titoli che avrebbero avuto il valore della carta stracccia.
Proprio le pessime ricette applicate ad Atene sono state il presupposto del successo dell’operazione swap: se qualcuno avesse pensato che la Grecia potesse avere la minima probabilità di farcela, si sarebbe tenuto ben stretti i vecchi titoli a tassi di interesse molto più alti.
Il senso complessivo dell’operazione è che le banche con i titoli greci senza più valore sono già state in parte risarcite della perdita grazie ai mille miliardi prestati dalla Bce al tasso dell’1%, in altra parte dal d1 130 miliardi ad Atene. Ma per ottenere tutto questo si è dovuto rapinare di diritti e lavoro del popolo greco. Ecco perché vedere questi ometti che si compiacciono dei loro errori e di essere riusciti a “salvare l’euro”, castrando un Paese perché non innescasse una reazione a catena, mi fa rabbia e pena allo stesso tempo. E per castrare intendo lasciarlo in condizioni molto peggiori di quelle in cui sarebbe se fosse uscito dalla moneta unica: certo in quel caso le perdite per le banche sarebbero state complessivamente più alte, ma gli stati forti non avrebbero più potuto vendere incredibili quantità di materiale bellico e fare lucroosi affari con Atene. E i flussi di export oltre ad avere il problema del cambio e delle compensazioni bancarie, non sarebbero stati più competitivi. Non c’è nemmeno bisogno, credo,di dire a quale o quali Paesi convenga che l’euro non si sfasci. A costo di qualsiasi sacrificio, naturalmente di altri.
Ma bisogna stare bene attenti quado si sente che ” le nostre truppe si ritirano su posizioni più difendibili per preparare la controffensiva”. Significa solo che si è persa una battaglia riuscendo tuttavia a metterci una pezza. Però non stupitevi se tra qualche mese apprenderemo che il nemico è ancora avanzato ed è ormai a ridosso dei confini. E ricordatevi allora le facce ridenti di oggi, quelle di chi è felice che i proprio inganni e la propria pochezza non siano ancora stati smascherati.
C’era una volta un allevatore di polli. Costui aveva il suo bravo pollaio, con un po’ di galline e qualche gallo.
Ogni giorno raccoglieva le uova e le andava a vendere al mercato, meno qualcuna per se’ e la sua famiglia e qualcun altra per far pulcini.
Qualche gallina veniva venduta, altre fatte arrosto, ma il pollaio restava sempre in piedi e produttivo.
Un bel giorno arrivò un professorone che gli impose di vendere ogni singolo uovo e pollo, pena il disprezzo dei vicini e degli altri professoroni.
L’allevatore, ingenuamente, accettò.
Quella stessa sera rimase sbalordito, non aveva mai visto tanto denaro assieme.
Il professorone tornò e gli disse che non poteva andare in giro conciato così e col trattore vecchio e pieno di fango; si comprasse auto di lusso e doppiopetto, TV gigantesche e cellulari all’ultima moda.
L’allevatore, imbesuito dai lustrini e dal luccichio, accettò.
Un mese dopo l’allevatore si trovò con le rate dell’auto, del vestito, della TV e del cellulare da pagare… oltre alle bollette.
Non aveva niente da mangiare: non gli era rimasto un solo uovo o una sola gallina, aveva venduto tutto come gli era stato indicato.
Il sarto venne a riprendersi il doppiopetto e volle a saldo parziale del debito una parte della sua terra.
Il concessionario venne a riprendersi l’auto e anche lui volle una parte della sua terra.
E così anche gli altri creditori.
L’allevatore così si trovò senza uova, senza galline, senza terra, senza i beni di lusso che aveva acquistato e senza soldi.
Il professorone, intanto, intascava la sua percentuale sulla vendita del terreno dell’allevatore.