Anna Lombroso per il Simplicissimus

«Vogliamo lasciarlo stare questo articolo 18? Io sono pronta a dire che non lo conosco. C’è tanto da fare nel mercato del lavoro, l’articolo 18 arriva per ultimo» ha detto la ministra Fornero, intervenendo a Porta a Porta. «Io non avevo e non ho in mente nulla che riguardi l’articolo 18. Sono stata ingenua…. Per questo le polemiche mi hanno dolorosamente colpito. Sono caduta in una trappola».
Colpa dei giornalisti dice la ministra, merito dei giornalisti verrebbe da dire, una volta tanto. In realtà il ripensamento è il risultato della legittima riprovazione di un largo strato popolare che ha trovato una sia pur prudente rappresentanza nei media, fino a costringere alla ragione perfino il letargico Bersani.

Hanno fatto bene invece i “disfattisti”, quelli che hanno resistito all’invito anche veemente a praticare quell’attendismo pragmatico e realistico, che come succede spesso si è rivelato rinunciatario e codardo. E che rischiava di lasciare soli i cittadini, la “maggioranza” vittima, quella condannata a sacrifici reiterati e umilianti, senza la contropartita di un impegno condiviso per la crescita. Che perseguiva un crimine ideologico: quella rottura del patto di cittadinanza e solidarietà mettendo contro precari, disoccupati e garantiti, come se oggi, salvo pochi, non fossimo tutti minacciati da incertezza e insicurezza. Come se non fossimo tutti ormai instabili nel lavoro, nel welfare, nella certezza del diritto e dei diritti. Che alimentava un equivoco infame: quello che la necessità imponga una gerarchia di diritti, la cui graduatoria è decisa da un ceto quello si privilegiato. Che convinceva che è preferibile e desiderabile che la gestione della cosa pubblica sia affidata ad altri, resti invisibile e recondita, inavvicinabile e intoccabile, comunque lontana in modo che invece i cittadini per bene si occupino indisturbati della “cosa privata”, interessi personali, sfera familiare e emotiva.

È questa l’antipolitica, quella di chi si è sentito appagato di delegare a “gente pratica”, come di chi vive la disillusione come un aristocratico vanto e una legittimazione alle dimissioni dalla responsabilità.
L’ammissione di imprudenza e di “ingenuità” della ministra, che è poi una involontaria confessione di inidoneità, ha subito due sollecitazioni. Una probabilmente inattesa, sorprendente e molto amara, quella sprezzante critica del presidente della BCE, che ha ricordato, perfino lui, che la flessibilità è recessiva. E una, altrettanto sgradita per un governo che ha fatto della sordità alle ragioni dei cittadini la sua cifra altezzosa e sdegnosa, quella che è venuta da una società civile che dopo un’ iniziale ubriacatura attribuibile al terrore ricattatorio ha cominciato esprimere malumore, disappunto, critica.

Forse non saremo più prigionieri come siamo stati, prigionieri di una classe politica sempre più strutturata su una logica di “ceto”, sempre più separata da tutto ciò che sta in “basso” nel paese sia esso movimento, elettorato, società civile. Forse riusciremo a non essere più solo ascoltatori passivi di un racconto pubblico, che non ha più nulla a che fare con l’esperienza vissuta da ognuno di noi, che viaggia e si riproduce solo nel circuito che va dai media alla classe politica e dalla classe politica ai media, e che ogni giorno vuole riconfermare esplicitamente che siamo marginali rispetto al mondo che conta, che potremmo essere ammessi solo se affiliati. Forse potremo diventare noi sordi a quella narrazione che ci vuol convincere a tutti costi di cosa deve essere assunto, magari provvisoriamente, come realtà- ora lo stato di assoluta necessità in nome della quale si deve rinunciare anche alla speranza –, cosa stia fuori da essa e che va respinta perché non ha “corso legale – oggi i diritti.

Si abbiamo una speranza se invece di stare a guardare ossequiosi e intimiditi davanti ai professori facciamo sentire qualche ragione e di ragioni ne abbiamo da vendere. Sappiamo bene chi e come ci ha portato fino a qui e non è inutile ricordarlo. Ma non possiamo accontentarci e compiacerci della caduta del tirannello e dei suoi, se non usciamo da quella galera, accidiosa e remissiva, che fa ritenere impossibile ribaltare alcunché, fosse anche un emendamento in finanziaria, perché qualsiasi cirtica qualsiasi reazione, qualsiasi tentativo di contare e scegliere sembra un reato di lesa maestà, quando non un’utopia da “programma massimo”.

Viene da ripensare alla frase dell’abate Siéyès con la quale inizia “Che cos’è il terzo stato”, un testo cruciale per la consapevolezza die diritti dei cittadini nella la Francia pre-rivoluzionaria: “Che cos’è il terzo stato? Tutto. Che cos’è stato finora nell’ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda? Diventare qualcosa”.
C’è da ringraziare la collera dei lavoratori, l’ira dei precari, il malumore dei pensionati e di quelli che non lo saranno mai, dobbiamo ringraziarci tra noi perché abbiamo cominciato a lacerare la cortina di separatezza per “diventare qualcosa”, per tornare a essere soggetti politici, o, più semplicemente, cittadini.