Anna Lombroso per il Simplicissimus

Il rosa mi sbatte. La vie en rose è una canzone di speranza perché il rosa nelle leggenda è un colore ottimistico. Ma a volte l’ottimismo sconfina nel beota adeguamento alla mediocrità. E il rosa diventa la tinta dell’accontentarsi, cui preferisco personalmente il rosso dell’ira.
Credo che anche i più creduloni tra i fan del cosiddetto sogno neo liberista abbiano ormai certezza che siamo in bilico in uno strano limbo tra la condizione di potenza economica occidentale e segmento marginale, tra primo e terzo mondo, ultimi tra i primi e primi tra gli ultimi.
In questo terreno senza confini netti che si stende tra realtà e rappresentazione, tra attesa di opulenza e sperimentazione dell’indigenza, si nutrono e si alimentano rancore e vittimismo.

Hanno ragione gli psicopolitici probabilmente: politiche di governo spregiudicate fanno leva sulla psiche e mettono al lavoro le emozioni con poche mediazioni culturali e senza differimenti culturali, facendo lievitare quelle negative, riempiendo il vuoto di identità con un senso di comunione fondato specialmente su istanze corporative.
“Ira e tempo” si intitola felicemente un libro di Peter Slotedijk che disegna una dimensione sociale connotata dallo stress della sopravvivenza e segnata dalla frustrazione, definendo la società come un popolo di potenziali vittime. Si succede di guardare a loro come a legioni ringhiose di insoddisfatti che reclamano il riconoscimento della loro condizione di frustrati e una redenzione, assicurata da privilegi minimi ma “dovuti”, certi e soprattutto garantiti.

Le religioni una volta e anche certe ideologie, fungevano da istituti di credito, qualcuno le ha chiamate banche dell’ira, che promettevano una soddisfazione differita. Adesso nella disgregazione di quelle forme, anche istituzionali, di gestione dello scontento, si affermano i broker della soddisfazione immediata ed effimera del risentimento con risposte occasionali e riduttive, che non affrancano e nemmeno emancipano. Anzi bene che vada anestetizzano la collera e l’antagonismo.

Non saprei definire altrimenti le quote rosa, ultima deriva della correttezza politica, estrema e non voluta ammissione dello stato di minoranza delle donne, ancorché maggioranza numerica. Minoranza nel riconoscimento dei diritti di uguaglianza, nell’accesso alle professioni e nelle remunerazioni. Al pari di altri segmenti penalizzati dalla crisi o dall’alterità di nascita, essere stati discriminati nella lotteria naturale. Minoranza nell’espressione di autoderminazione che non si ottiene mediante brevetti e automatismi.
Si tratta di idranti pensati per spegnere l’entusiasmo della partecipazione, anestetici sperimentati con un certo successo dalle strategie di ottundimento dell’impegno e della responsabilità. 10% neri, 10% gay, 10% donne, 10 % corrotti, ah no quelli no perché pare siano in maggioranza delle imprese ammesse in borsa.
In un sistema intriso della peggior pratica di affiliazione personalistica e familistica, nella quale le regole sono dettate da criteri di fedeltà e ubbidienza, di appartenenza a giri e cricche, dovrebbe essere un merito per chi crede a qualità di genere, aspirare a un’affermazione dei propri diritti e delle proprie competenze piuttosto che al godimento di attribuzioni sancire per provvedimento d’urgenza.
Ma forse le quote obbligatorie sono necessarie. Per delle minoranze misconosciute cui assicurare diritto di parole, di scelta e di espressione. Le quote dell’intelligenza e della competenza.