Anna Lombroso per il Simplicissimus

Quale sia la nostra forma di governo è sicuro che il nostro sembri soprattutto il  regno del  paradosso.

A contraddire la storica frase «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani», del 1896, attribuita a d’Azeglio ma in realtà pronunciata da Ferdinando Martini nel 1896, c’è la mesta conferma che non solo non si sono “fatti” gli italiani, ma che questo paese troppo lungo non è mai stato davvero unito, mai, nemmeno dei momenti del riscatto risorgimentale e resistenziale, sono state superate le differenze e le disuguaglianze, ma a distanza di tanti anni abbiamo la certezza che viviamo senza “nazione” proprio quando ancora una volta veniamo obbligati a sacrificarci, a andare in guerra, a privarci del poco che resta di stato sociale per difendere quello stato di diritto,  che da noi è stato demolito, altrove, in modo che la vittima di un’occupazione sia libera di scegliere un’altra dominazione più compatibile con le aspettative del suo governo e più affine a quella che ci affligge.

Sarebbe ora di cominciare a contestare l’interminabile elencazione dei vizi che caratterizzerebbero la nostra autobiografia di popolo, redatta dalle élite e propalata dagli intellettuali che hanno mutuato gli usi del ceto padronale con l’impiega del bastone e della carota morale, alternando l’invettiva contro “un popol diviso per sette destini, / in sette spezzato da sette confini”, addestrato da secoli alla “servitù”, sopportata grazie a  certa grettezza provinciale da signori decaduti”, attenta a badare ai propri miserabili interessi particolari, una zavorra culturale e ideologica insomma, con  l’esaltazione delle virtù  italiche, incarnate da poeti, navigatori, santi e patrioti eroici, onesti lavoratori e probi padri di famiglia alcuni milioni dei quali nei secoli sono stati costretti a carcero fortuna lontano del suolo patrio.

Si sa infatti che il concetto di patria, celebrato in date commemorative con l’opportuna retorica del caso, è stato oggetto di cattiva stampa da parte di chi lo identificava con retrogradi sentimenti nazionalisti e sciovinisti, o rimosso da chi sa bene che i richiami a valori popolari potrebbero indurre una pericolosa presa di coscienza.

Come dimostra la narrazione in corso lo stesso termine, patria, può essere autorizzato solo in un caso, se si fa riferimento cioè al suolo calcato dal tallone nemico, se impersona la minaccia alla civiltà occidentale che vanta una indiscussa superiorità. Solo allora ci viene ricordato il passato riesumato un paio di volte l’anno, allo scopo di  farci stringere a coorte su sollecitazione di una nomenclatura che ha già indossato l’elmo di Scipio per dare più autorevolezza marziale  agli investimenti in riarmo, alla opportunità di dimostrare la nostra abnegazione pagando i costi individuali e collettivi dell’interventismo.

Viene estratto dall’armadio della vergogna di trascorsi anche recenti, che ci hanno visto collaborazionisti in avventure imperialistiche e coloniali, tutto il repertorio enfatico e bugiardo da parata del 2 giugno in aperta competizione con le piazze del 25 aprile. Il presidente travicello bis, secondo i titoli dei giornali,  rimette in riga “le incredibili derive neutraliste dell’Anpi”  e rifacendosi “alla lezione del cattolicesimo politico democratico” che non alza bandiera bianca,  e condannando senza tentennamenti l’attacco che “colpisce le fondamenta della democrazia, rigenerata dalla lotta al nazifascismo, dall’affermazione dei valori della Liberazione combattuta dai movimenti europei di Resistenza, rinsaldata dalle Costituzioni che hanno posto la libertà e i diritti inviolabili dell’uomo alle fondamenta della nostra convivenza”.

Non è da meno la senatrice a vita Segre che non si trincera dietro  “ai vacui e vaghi appelli alla pace”, titolano i giornali,  chiamando a raccolta per sostenere la resistenza del popolo invaso, per condannare   “l’aggressione immotivata e ingiustificabile contro la sua sovranità” nel pieno esercizio “di quel diritto fondamentale di difendere la propria patria, che l’articolo 52 prescrive addirittura come sacro dovere“. “Non è concepibile nessuna equidistanza”, dice “se vogliamo essere fedeli ai nostri valori..”.

Ma se quei valori ci sono stati consegnati in prestito dai partigiani che, lo ricordo a dispetto di chi ha retrocesso una lotta per dare vita a una società giusta e libera da sfruttamento e ignoranza a semplice guerra di liberazione, quando abbiamo smesso di essere loro fedeli?

Quando abbiamo smesso di essere patria e nazione, che in tanti hanno definito mite, mentre quante volte abbiamo tradito questa immagine e reputazione prestandoci a disonorevoli imprese belliche?

Da quando è stata stabilita la obbligatorietà della rinuncia a quei principi e perfino alla parola nazione bandita anche dai pistolotti degli ospiti del Colle, perché evoca il fantasma sovranista quando tutto deve concorrere alla esaltazione della ipersovranità europea garante di libertà e benessere?

Le date ci sono,  a partire dalla prima, l’8 settembre. Ma via via la perdita di identità è stata scandita dal patto vincolante di eterna gratitudine per i liberatori, intenti a rivendicare la paternità in regime di esclusiva della nostra democrazia anche grazie all’erogazione di quella carità pelosa, il Piano Marshall, anticipatore per il suo pesante condizionamento del Recovery Fund, e che richiesero la missione di un De Gasperi genuflesso nella capitale dell’impero a dimostrazione della buona volontà e dell’impegno della sua Dc a assicurare fedeltà e obbedienza, ancora prima del sigillo dell’adesione ufficiale alla Nato.

E’ una data la morte “inesplicabile” di Mattei che segnò il consolidamento della soggezione economica, commerciale e politica agli Usa e ai suoi paesi e al trading state le cui regole sono dettate da remoto a ricordarci che dovevamo essere sempre pronti a dimostrare la nostra conformità in modo che si riguadagnasse la reputazione perduta per un regime la cui ascesa era stata benedetta a favorita dai “vincitori” e per la “sconfitta” vergognosa.

E poi via via hanno determinato la consegna del Paese “denazionalizzato” i riti di abiura, con la decisione di entrare nello Sme, sostenuta con forza da Carter,  otto mesi dopo la morte di Moro permessa dall’establishment democristiano che temeva la normalizzazione del Pci e di rapporti internazionali più “equilibrati”, a riprova della doverosa remissività del ceto dirigente tutto all’allineamento delle politiche economiche interne e estere ai diktat del campo con il quale l’Italia si era schierata. O quelli inaugurati con la storica lettera  inviata nel 1981 da Andreatta, ministro del Tesoro, al Governatore Ciampi per esonerare Bankitalia dall’obbligo di acquisto dei titoli pubblici rimasti invenduti, sancendo il divorzio istituzionale officiato aggirando il Parlamento e consegnando di fatto il debito pubblico nelle mani della speculazione dei mercati internazionali e che culminerà nella firma dell’Atto unico europeo con il totale indebolimento dell’azione statale e governativa.

Se serviva il boia, si è poi presentato in veste di solerte mozzo sul Britannia, nel 1992, da dove viene avviato il percorso di svendita dell’apparato pubblico  con  privatizzazioni selvagge (IRI, Telecom, Comit,Credit, Eni, Enel, etc,) per un totale di 182.000 miliardi di lire.  Allora il becchino si dichiarò consapevole del fatto che quell’azione  avrebbe “indebolito la capacità del Governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale”, ma che  si trattava di un gesto “inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea”.

E che dire della trasformazione di dogma da celebrare con una sequela di atti di fede, dell’obbligo del vincolo esterno, che con l’austerità svolge al funzione di sostituto dello stato forte,  delle condizioni inesorabili e fatali del Trattato di Maastricht,  di quelle dismissioni di sovranità, compreso il bail in  che procedevano in concomitanza con eventi bellici cui eravamo chiamati a contribuire per riaffermare la nostra agognata “appartenenza” al consesso dei Grandi, sempre in posizioni però gregarie: Libia, Balcani, Somalia. Con l’impegno sottinteso a rinunciare a ogni pretesa di intervenire ai tavoli negoziali, avendo abdicato alla determinazione di una politica estera che non si traducesse alla replica infinita del giuramento di fedeltà alla Nato.

In compenso i nostri governi hanno fatte proprie le procedure del colonialismo, con tanto di speculazioni, pratiche corruttive, sfruttamento e dissipazione di risorse soprattutto in terra d’Africa, e quelle dell’imperialismo applicato all’interno del Paese, come insegna il caso Ilva – Arcelor Mattel con la condanna di un comparto a soggetti che lo volevano demolito per accreditarsi come unici competitor e di una città martire al lutto e al disonore.

Eh si, è davvero paradossale che a una terra che si è fatta occupare militarmente, che ha ceduto porzioni del suo territorio a poligoni di tiro, laboratori sperimentali, basi, trampolini, che ha permesso venissero alienate le sue proprietà e i suoi beni, venisse promessa una imitazione di dignità se si presta a fare da bersaglio, se si rende disponibile a partecipare attivamente a una guerra suicida, in un ruolo subalterno, in una condizione di servitù inevitabile per chi ha smesso di essere Paese e Popolo.