Anna Lombroso per il Simplicissimus

A volte si dovrebbero temere le buone notizie più di quelle cattive. Come nel caso dei successi del governo del mammasantissima inviato dalla cupola europea a liquidarci, che vengono diramate con toni trionfalistici e squilli di tromba a coprire i lamenti delle vittime.

A leggere i dati dell’Osservatorio sul precariato si dovrebbe esultare perché “il mercato del lavoro tutto torna a respirare”:le assunzioni  attivate dai datori di lavoro privati fino a ottobre, ultima rilevazione disponibile, tra quelle nuove e i rinnovi,  sarebbero state5.265.000, con un aumento rispetto allo stesso periodo del 2020 del 19%.  La crescita avrebbe “interessato tutte le tipologie contrattuali”, risultando però più accentuata per le assunzioni con contratti di somministrazione (+32%) e stagionali (+31%). Per altre  tipologie si registrano aumenti più contenuti: apprendisti (+22%), tempo determinato (+18%), intermittenti (+14%) mentre per i contratti a tempo indeterminato l’incremento è solo dell’8%.

Si sa, mai come di questi tempi la scienza statistica si presta a fantasiose interpretazioni quindi i numeri della nota congiunta del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e della Banca d’Italia,  si riferiscono alla  “creazione” di posti di lavoro, informando che dall’inizio del 2021 quelli nuovi sarebbero oltre 830.000, concordando con la fonte Inps sul fatto che per quasi il 90 per cento si tratta di contratti a termine.

L’Istat dal canto suo  nel decantare il risultato positivo registrato nel terzo trimestre dell’anno scorso con 500 mila occupati in più rispetto al 2020, denuncia che si tratta in maggioranza di posizioni a termine che vanno ad aggiungersi ai 3.003.000 di precari che costituiscono lo zoccolo duro della mobilità promossa in vent’anni di norme e riforme di diritto del lavoro. Altra fonte, altro dato, fresco di giornata:  secondo il Sole 24Ore sarebbero solo 500 mila i posti di lavoro creati nel 2021, e di questi la quota maggiore, 150mila, è nel settore delle costruzioni.

Questo è il futuro già in atto riservato al capitale umano, compresi i ragazzi beneficiati dalla “metodologia didattica innovativa che permette di “alternare” momenti di formazione in aula e in azienda (o altra struttura ospitante), allo scopo “di  avvicinare i giovani al mondo del lavoro, orientarli e promuovere al contempo il successo scolastico”. Questa è l’occupazione dell’oggi e del domani, per rider, magazzinieri, pony, muratori, salvo eccezioni accuratamente selezionate grazie ad una meritocrazia che prevede che siano abilitati a aggiudicarsi ruoli e funzioni superiori solo quelli degni per origine, appartenenza, censo, patti di sangue a garanzia della  fidelizzazione ai vari livelli dell’oligarchia.

E questa è anche la nuova forma dell’alienazione, tra lavoro virtuale e materiale, intellettuale e manuale, non certo superato malgrado le magnifiche promesse della digitalizzazione e della tecnologia e che dovrebbe risparmiaci dalla fatica a cominciare dal quella di pensare che potremo delegare alle intelligenze artificiali.

Estraniamento, oggettivazione, grazie al dominio delle istituzioni e dell’economia, non sono più legati soltanto ai rapporti di produzione  capitalistica. E non solo per via di una interpretazione che ha fatto dell’alienazione una “patologia” comportamentale, quasi una incapacità degli individui di adattarsi e relazionarsi agli altri e alla realtà intorno, facendo perdere il suo potenziale di denuncia della società borghese in generale. Ma  anche perché nelle nostre esistenze hanno fatto irruzione altre forme di produzione immateriali, con altri tipi di consumo e di sfruttamento: la mercificazione, la burocratizzazione, il conformismo,  l’iperspecializzazione, che hanno ridotto  la cognizione di sé, prodotto la censura sulle nostre aspettative il cui appagamento, conflittuale con il sistema, pare non essere meritato.

Dagli ultimi anni del secolo breve l’edificio di conquiste e garanzie del lavoro duramente conseguite, è stato gradualmente ma irreversibilmente demolito, grazie al collaborazionismo delle forze sindacali e al tradimento dei partiti che per tradizione e mandato dovevano essere al servizio del riscatto degli sfruttati.

La nostra contemporaneità fa pensare che la guerra di classe sia perduta, anche grazie all’atteggiamento rinunciatario  di quelle élite del monopolio intellettuale ormai soggiogate dal pensiero dominante e che consumano ogni risorsa nella conservazione e manutenzione della propria superiorità, nell’illusione che sia inviolabile dalla pressione delle disuguagliante, dalle discriminazioni e dal progressivo impoverimento di beni e di valori.

La persuasione che la rivoluzione tecnologica e digitale fa parte della grande finzione che viene officiata ogni giorno per convincere i demoralizzati, gli umiliati, i derisi e i frustrati che se sono sommersi la responsabilità è loro, frutto della colpa di non aggiornarsi, di non saper cogliere le meravigliose opportunità del progresso. E che per gli altri, quelli più ambiziosi e dinamici, che i lavori à la carte, gli espedienti, la mobilità, l’insicurezza siano i prezzi da pagare per un po’, fasi temporanee dopo le quali in cambio di obbedienza e assoggettamento, sarà possibile accedere a benessere e certezze.

Eppure dietro ai sistemi di automazione della produzione  ci sono  minatori che estraggono stagno, operai delle fabbriche di  iPhone, migliaia di lavoratori impegnati a realizzare l’utopia digitale, sotto le piramidi dei sacerdoti del Grande Reset che vogliono lasciare l’impronta di cemento del loro passaggio ci sono muratori, manovali. Finora dietro le macchine, ai telai, all’assemblaggio dei pezzi, davanti ai pc dove si mettono a punto algoritmi che governano le azioni e controllano le prestazioni degli addetti al settore della logistica, c’era la gente del Sud del mondo, giovani e vecchi, donne e ragazzi.

Ma ormai, se non lo siamo già, anche noi siamo catalogati e annoverati tra le etnie straccione e indolenti del mezzogiorno occidentale, disposti oltre che costretti a subire ricatti e intimidazioni, lotofagi che assumono in via farmacologica e culturale le droghe dell’oblio in modo che dimentichino, insieme al passato, talenti e aspirazioni, desideri e prospettive, per precipitare in un abisso di rinunce, sacrifici, umiliazioni.

A questo fine è stata coltivata l’ignoranza, alimentata una fede cieca e ottusa nell’autorità, nutrita l’invidia, mentre intorno un incessante chiacchiericcio confonde le idee e la colonna sonora dell’outlet globale copre le voci critiche.