Anna Pulizzi per il Simplicissimus

I soldati russi e bielorussi tornano a casa, rapidamente come sono arrivati, dopo aver presidiato per giorni i punti nevralgici del Kazakistan, turbato da un accenno di ‘rivoluzione colorata’ analoga a quella ucraina del 2014. C’erano con loro altri reparti, appartenenti all’Armenia, al Tagikistan e al Kirghizistan, paesi facenti parte della Otsc (o anche Csto), una sorta di Nato post-sovietica che a differenza dell’organizzazione atlantica ha scopi difensivi e che per la prima volta dalla sua fondazione nel 1992 operava sul campo al di fuori delle periodiche esercitazioni militari. La minaccia dunque pare rientrata ed il numero delle vittime, qualche centinaio, sarebbe stato certamente molto maggiore se i disordini fossero proseguiti più a lungo.

L’incendio del Kazakistan, paese grande nove volte l’Italia ma con una popolazione pari appena ad un terzo, ha preso il via per l’unione di un combustibile endogeno e di un comburente fatto giungere dall’esterno, vale a dire malumori interni dovuti all’aumento dei prezzi ma intenzionalmente cavalcati da quelle bande di criminali che puntualmente appaiono nei paesi oggetto di tentativi di sovversione da parte dell’Occidente. E’ stato così in Venezuela ma anche ad HongKong, in Ucraina come in Nicaragua, in Bielorussia come in Siria eccetera. Il copione ormai è noto ma sembra andare in scena in modo automatico ogni volta che se ne presenta una pur pallida occasione, evidentemente in assenza di un adeguato studio di fattibilità e di reale convenienza, cosicché il tentativo può andare incontro ad un rapido fallimento con effetti controproducenti per i suoi ideatori.

In Bielorussia infatti il tentativo di sovvertimento ordito dall’Occidente ha portato sia ad un consolidamento del leader Lukashenko sia soprattutto, per ovvie ragioni di sopravvivenza politica, ad un suo avvicinamento a Mosca. La stessa cosa si può dire per il Kazakistan, di cui non si può ancora conoscere la politica futura ma se ne può già intravedere qualcosa attraverso le parole del presidente Tokajev, che ha denunciato quanto avvenuto come un tentato colpo di stato che ha visto come attori potenze straniere insieme ad una quota dell’apparato di governo in combutta con l’oligarchia petrolifera locale. Ne è seguito un parziale rimpasto ai piani alti delle istituzioni kazake e anche in questo caso un rafforzamento del ruolo della Otsc e quindi dell’influenza russa.

Ora, il Kazakistan è certamente un paese importante un po’ per tutte le grandi potenze e aspiranti tali, per i suoi giacimenti di idrocarburi, perché confina sia con la Russia che con la Cina ed è parte del lungo percorso continentale della nuova Via della Seta. Per questo e per altro, i due grandi confinanti non possono permettere che il Kazakistan finisca saldamente collocato nel blocco occidentale, ma proprio per questo esso è diventato negli ultimi decenni un obiettivo estremamente appetibile nel quadro della strategia di accerchiamento operata a Washington. E difatti gli americani con il loro codazzo sono tuttora ben presenti nel paese attraverso una pletora di Ong, importano il 70% del suo petrolio, attraverso la Chevron e la ExxonMobil controllano i tre quarti dei giacimenti nella ricca zona di Tengiz e soprattutto – se le cose non cambieranno radicalmente – estendono un’influenza indiretta attraverso l’oligarchia dei grandi possidenti, strumento essenziale di ogni politica coloniale. Uno di questi, Karim Massimov, era fino all’altro giorno capo dei servizi segreti kazaki e in ottimi rapporti con Hunter Biden, figlio del presidente Usa, già esperto di affari torbidi in Ucraina. Ma gli americani si sentivano così di casa in Kazakistan da aprire una decina di laboratori biologico-militari, il principale dei quali sorgeva nei pressi di Almaty, dove non si sa bene che cosa combinassero ma si sa invece che nel luglio 2020 si era diffusa nei dintorni una sorta di polmonite di origine sconosciuta che ha provocato oltre centomila casi e seicento vittime. L’ex ministro della difesa Togusov denunciava “Siamo come scimmie sperimentali qui, e il nostro territorio è un terreno di prova naturale del Pentagono per testare nuovi virus”, inviava in Russia importanti informazioni su quanto stava accadendo e poco dopo lo trovavano cadavere, ufficialmente a causa di un infarto. Insomma, non sembrava proprio che gli americani si sentissero insicuri nel paese.

E’ proprio in presenza di tale situazione, per certi versi simile a quella russa negli anni ‘90, se il precedente governo kazako, venendo incontro ai desiderata del ceto possidente, ha liberalizzato il prezzo dei carburanti, provocando immediatamente un loro rialzo che si è esteso ai beni di prima necessità ed ha portato la gente in piazza, il tutto mentre erano già pronte le bande armate reclutate prevalentemente in ambito jihadista con il compito di trasformare la protesta in insurrezione a beneficio dei loro registi occulti. Aveva funzionato così bene in Ucraina, perché non anche in Kazakistan? Qui oltretutto la popolazione è per il 60% sunnita, non mancano venature fondamentaliste, certamente ampliate dal recente successo della fallocrazia afghana e insomma mettere in urto la Russia con il suo ‘ventre molle’ islamico è sempre stato un obiettivo gustoso della strategia americana, fin dagli anni ‘70 e dalla dottrina Brzezinski, che riprendeva quella Truman (a sua volta mutuata dall’impero britannico) originariamente diretta a tenere l’Urss e oggi la Russia lontana dai mari caldi. Si può al momento solo ipotizzare un contributo al progetto sovversivo anche da parte della Turchia, molto interessata anche all’Asia centrale pur nella palese assenza di mezzi all’altezza delle proprie ambizioni.

Però come abbiamo visto la cosa non ha funzionato. E non poteva perché l’Occidente non aveva alcun modo per fornire sostegno logistico ai propri facenti funzioni sul posto, così come non ne aveva in Bielorussia. Per i poco astuti strateghi che circondano Biden e che magari lo aiutano a cercare il Kazakistan sul mappamondo, il recente episodio sembra presentarsi come una bella zappata sui piedi, mentre il controllo occidentale sul Kazakistan tenderà presumibilmente ad allentarsi. Tuttavia queste operazioni rientrano in una logica che ormai si autoriproduce secondo i medesimi schemi e tutto ciò che viene presentato nello studio ovale come lesivo degli interessi russi o cinesi ottiene l’immediata approvazione.

Il clima in cui operano i centri decisionali occidentali è quello tipico di una guerra imminente, o meglio della ricerca spasmodica di espedienti per renderla fattibile senza correre rischi eccessivi, cosa ormai impossibile dato che la Russia non ha più un luogo dove ritirarsi, così come ammesso candidamente da Putin. La situazione rievoca il noto “non c’è più terra per noi dietro il Volga” dei difensori di Stalingrado verso la fine del 1942. In sostanza, la Russia si trova oggi nella triste condizione di non poter più rinunciare a nulla senza perdere definitivamente ogni credibilità geopolitica. Tale è il risultato di vent’anni di ‘appeasement’ putiniano, di costante ricerca di una sistemazione pacifica con la controparte americana, la quale invariabilmente interpreta la disponibilità dell’avversario come ammissione di debolezza e si mantiene fedele ai trattati con lo stesso scrupolo con cui rispettava quelli firmati con le tribù dei nativi.

Se pure si poteva giustificare la strategia di Mosca con la necessità di prendere tempo per rafforzare anche qualitativamente il proprio apparato di deterrenza, bisogna ammettere che essa è giunta in questi anni al capolinea. La minaccia di ammettere l’Ucraina e la Georgia nella Nato pende come una spada di Damocle sulla libertà di manovra russa ed è venuta meno del tutto quella cautela che ha caratterizzato decenni di guerra fredda, laddove ci si misurava in casa d’altri a prudente distanza dai propri confini, perché si capiva che umiliare il nemico significa costringerlo ad una reazione di cui è poi impossibile padroneggiare le conseguenze.

Difficile dire se ancora si può sfuggire ad una guerra epocale, rimasta a lungo in equilibrio tra l’impossibile e l’inevitabile. Da una parte c’è un disegno di dominio planetario pericolosamente coltivato nella sfrontatezza e nella sottovalutazione del nemico, dall’altra il fallimento di ogni tentativo di accomodamento e forse anche delle fortune del suo principale artefice. Due errori radicalmente diversi anche sul piano etico, ma che insieme possono produrre un disastro.

In questi giorni i comandi russi hanno dimostrato eccellenti capacità in termini di efficienza e rapidità di intervento, ottenendo in Kazakistan un successo di cui si potrà successivamente valutare il peso, ma forse sarebbe stato meglio per Mosca rintuzzare la protervia occidentale con maggiore decisione ogni volta che essa si manifestava da qualche parte, invece che arroccarsi ai confini del proprio prestigio. Churchill giudicò un giorno in modo tagliente l’arrendevolezza dei governi inglese e francese nei confronti della minaccia nazista e la loro errata convinzione di poter controllare gli eventi con atteggiamenti concilianti: “Francia e Inghilterra potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore. Avranno la guerra”.

Sarebbe ingiusto accusare Mosca della medesima miopia, ma la storia ha le sue costanti e per fermare gli incendiari non bastano i pompieri