Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ci sono svariati modi per delegittimare una battaglia sociale e culturale. Uno di quelli più in voga nei gangli del potere è ridicolizzarla, impadronendosi dei suoi slogan e esasperandoli in modo che sconfinino nella parodia e nella “macchietta” con i pennacchi e i lustrini della parate dei gay pride delle celebrità già sdoganate, idolatrate e “incluse”, con le marce coi pussy hat all’uncinetto, con il liceo che vieta le desinenze discriminatrici, con le sacerdotesse della schwa e i profeti della cancel culture che fa strame di Shakespeare e del principe baciatore, di Cristoforo Colombo e di Caravaggio assassino  e raccomanda di decapitare statue e busti di presidenti, rompere i cd di Springsteen, mandare al macero i film di Allen.

L’effetto è devastante perché copre il vero intento che consiste,  come al solito, nel mercificare e commercializzare convinzioni e inclinazioni, in modo da creare nuovi mercati e aggregare nuovi pubblici di consumatori che si riconoscono in parole d’ordine diventate la colonna sonora di spot globali.

Perché contribuisce ad addomesticare l’impeto legittimo di minoranze con l’elargizione di licenze e medagliette, omettendo che i diritti reclamati sono perlopiù già concessi a target privilegiati che se li comprano, o li ereditano, o li conquistano fidelizzandosi al sistema che li ha ammessi e annessi.

Perché introduce un manicheismo alla rovescia, sicché non c’è serie televisiva nella quale il vero amore non sia incarnato da patinare coppie omosessuali che in virtù della loro inclinazione e scelta superano ogni ostacolo festeggiando matrimoni coi paggetti e i confetti e le nozze d’oro a simboleggiare l’esclusiva del vincolo inossidabile, non c’è poliziesco nel quale il poliziotto nero non sia l’unico che si batte contro la corruzione dei colleghi wasp, tanto che è stata richiesta la messa al bando di quelli che raccontano le gesta di un detective afroamericano colpevole di sembrare troppo bianco per via di tentennamenti morali incompatibili con il neo maccartismo della correttezza politica.

E perché si tratta di una svalutazione di valori e di principi comuni ridotti a propaganda, l’antifascismo pret à porter delle sardine, l’ambientalismo dei giardinieri di Greta, l’antirazzismo che si ferma ai bastioni di Capalbio, la nostra libertà che finisce dove comincia la loro, chiusi dentro la fortezza imperiale, l’autodeterminazione regolata dal green pass, l’informazione autocontrollata secondo i dogmi della realpolitik medicale.

Il risultato è scontato, all’inseguimento di una nuova morale più laica, abbiamo ripristinato credo e recuperato atti di fede che stravolgono i principi della libertà e delle responsabilità, personali e collettive, istituendo graduatorie e gerarchie di diritti, persuadendo che quelli fondamentali, istruzione, un tetto sulla testa, un salario dignitoso quanto una vita e una morte senza umiliazioni, la realizzazione dei propri talenti, la libera circolazione e l’accesso a beni comuni, la cura e l’assistenza pubblica, fossero ormai inalienabili, intangibili, sacri e illimitati.

E che fosse quindi arrivato il momento di battersi per quelli che venivano definiti diritti “civili”, e non  a caso, da supporter poco interessati a battersi contro lo sfruttamento, le disuguaglianze, l’avidità insaziabile di un sistema totalitario, oggi ridiventati tabù inviolabili e totem che non è lecito abbattere in presenza di stati di necessità, emergenze, crisi, che esigevano la sospensione di ogni forma di critica e opposizione.

A rimorchio come dei Nando Mericoni contemporanei, dei fermenti d’oltre oceano non abbiamo valutato che i fermenti per la giustizia razziale  che esigono  una maggiore uguaglianza e inclusione sociale potrebbero produrre un conformismo “ideologico”, contrassegnato dal linciaggio verso opinioni differenti,  dall’intolleranza e dall’ostracismo verso chi si sottrae alla spirale del silenzio del pensiero mainstream e dalla “comodità”  di stemperare fondamentali questioni politiche nella materia inattaccabile di certezze morali stabilite da poteri che avocano a sé il potere di discernere il Bene dal Male, a nostro vantaggio.

La cancel culture, individuata come l’arma etica  impugnata dalle minoranze finalmente in grado grazie ai ripetitori globali, di scagliarsi contro crimini e abusi ha via via perso di vista il contenuto “antisistemico” da rivolgere contro i detentori di ricchezze e poteri monopolistico, per ridursi alla condanna virtuale di reati d’opinione e al boicottaggio di idoli e icone fino a ieri oggetto di ammirazione.

Incuranti che fosse la riprova della nostra indole a farci colonizzare anche l’immaginario, avevamo pensato che si trattasse di una aberrazione americana che non avrebbe fatto presa sui nostri usi smaliziati e disincantati.

Macchè l’Europa sempre più orientata a esaltare il legame indissolubile con il guardiano del mondo ormai sdentato, velleitario e perso nelle sue ossessioni dementi, ha deciso di essere à la page con una sua rivoluzione culturale che reca lo stesso marchio dell’equiparazione di fascismo e comunismo, producendosi nelle linee guida “per una comunicazione inclusiva”, con i criteri che devono rispettare  i quadri della Commissione,  in modo da erogare “ una comunicazione inclusiva, garantendo così che tutti siano apprezzati e riconosciuti in tutto il nostro materiale indipendentemente dal sesso, razza o origine etnica, religione o credo, disabilità, età o orientamento sessuale”.

D’ora in poi l’entità regionale che da anni premia i soggetti forti che innalzano muri e stendono fili spinati per confinare quelli meritevoli di essere confinati in modo che non contagino con le loro cattive abitudini, la stessa che finanzia la Turchia perché possa applicare il respingimento amministrativo e marziale degli immigrati, quella che conduce campagne di discriminazione e umiliazione di partner colpevoli di non cedere ai ricatti al suo racket, la stessa che a ripete l’atto di sottomissione atlantica comprando armi scamuffe e partecipando a campagne di guerra imperialistica,  vieta ai suoi burocrati di utilizzare stilemi di genere come «operai o poliziotti», l’impiego predefinito del pronome maschile, quello di «Miss o Mrs» a meno che non sia richiesto dal destinatario del messaggio, di organizzare riunioni e conferenze reali o virtuali aperte a un solo genere maschile o femminile, di ricorrere nelle prolusioni e nei discorsi alla formula “signori e signore”.

Per favorire la gioiosa rivoluzione semantica, vengono fornite tabelle con indicati i livelli di rischio di una comunicazione irrispettosa dei generi, delle etnie delle culture, degli stili di vita e delle credenze, raccomandando vari accorgimenti, come quello di non rivolgersi ai maschi con cognome e alle femmine con il nome,    a non ricorrere a immagini che condannino il soggetto al suo stereotipo, a attribuire i successi del progresso alla creatività maschile, sostituendo il termine “uomo” con il generico “umanità”.

E ci informa il Giornale, non disinteressatamente impegnato di arcaiche battaglie contro il meticciato, che le linee guida, a smentire uno dei principi cardine dell’unione, le comuni radici confessionali,  mirano a superare il pregiudizio che tutti siano cristiani, chiedendo la rimozione della formula “vacanze natalizie”  da sostituire con l’anodino “periodo di vacanze invernali”, che però potrebbe contrastare con le certezze scientifiche a proposito del cambiamento climatico e del rispetto delle legittime differenze di chi vive agli antipodi.

Così se tutti i fenomeni finiscono per diventare problemi di ordine pubblico da risolvere con la sorveglianza e la repressione, la libera espressione era naturale che diventasse oggetto di misure di controllo e censura. E come spesso succede la tragedia culturale e morale si traduce in farsa.