Anna Lombroso per il Simplicissimus

Si sa che la virtù professionale dei giornalisti è il dilettantismo. E più superficiale ed estemporaneo è, più aiuta carriera e avanzamenti, tanto che quelli che si appassionano a un tema vengono emarginati come maniaci ossessivi che a ogni riunione di redazione si ostinano a proporre inchieste sul traffico d’armi o stragi irrisolte impunite sfuggite agli addetti ai cold case televisivi.

Oggi quindi farò la giornalista parlando di un argomento, uno dei più specialistici che ci siano, per “sentito dire”, il calcio, avendo appreso che il frazionismo non è una cifra antropologica della sinistra e nemmeno delle regioni secessioniste tra Lega, quell’altra, e il Pd.

Ieri infatti è stato reso noto che dodici club europei di calcio hanno stretto un accordo per costituire una nuova competizione calcistica infrasettimanale, la Super League, governata dai Club Fondatori, creando una spaccatura insanabile tra alcuni dei club più prestigiosi d’Europa, Uefa, Fifa e leghe nazionali.

A leggere i firmatari, alcuni dei quali per appartenenza dinastica sono ubiqui qui e in Confindustria,  si capisce che la scissione ha dato vita non solo a una task force a carattere organizzativo, ma addirittura a un think tank, un pensatoio che si è dato l’obiettivo, reso urgente dagli effetti della pandemia,  “di migliorare la qualità e l’intensità delle attuali competizioni europee nel corso di ogni stagione….grazie a una visione strategica e ad un approccio sostenibile dal punto di vista commerciale per accrescere valore e sostegno a beneficio dell’intera piramide calcistica”.

 I faraoni ribelli della piramide calcistica si presentano come una lobby più prestigiosa e influente dei CdA delle aziende e delle associazioni industriali in cui compaiono in forma di mezzadria: in barba alle moleste restrizioni cui alcune imprese  hanno dovuto assoggettarsi,  le industrie calcistiche di Inter, Juventus, Milan, le big six inglesi, e le grandi di Spagna, i brand globali capaci di attrarre i tifosi di tutto il pianeta, con lo slogan «i migliori giocatori, le migliori squadre, tutte le settimane», daranno vita a una nuova competizione continentale che partirà il prima possibile, con un “format” nuovo da dieci miliardi di dollari che unisce i principali club europei sul modello dell’Nba e della Nfl.

L’intento è quello di sancire il primato dei club che esigono venga riconosciuta la loro autorità assolutista e in regime di esclusiva nel “governo”   del calcio e nel contrasto alle “burocrazie” che si sono determinate negli anni e che non hanno saputo difendere il gioco e il business penalizzati dalle misure anticovid.

L’Uefa e le federazioni nazionali già promettono battaglia e spingono per una nuova Champions League nella speranza di frenare le ambizioni separatiste, temendo di vedere i delfini di prestigiose casate in piazza con i gilet gialli, coi ristoratori, coi pizzaioli e Casa Pound a suo agio nell’ambiente visti gli stranoti intrecci tra nazitifosi e curve.

Sono lontani i tempi nei quali la passione calcistica si misurava con volume dei transistor sotto l’ombrellone: il calcio appannaggio di grandi gruppi in concorso con altri grandi gruppi dello star system, televisioni, colossi della pubblicità e delle sponsorizzazioni, è un fenomeno spettacolare globale, che scende in campo anche con la finalità dichiarata di sottrarre attenzione all’altro fenomeno spettacolare globale, la pandemia la cui narrazione occupa militarmente politica, economia, informazione.

E con le stesse modalità  sono determinati a distrarre gli appassionati dalla paura del contagio, restituendo loro il gusto della competizione sugli spalti o sul divano con gli amici e la birra, così come sono stati distratti con la paura del contagio milioni di persone per distoglierle dalla crisi sociale che stava già comportando la perdita di lavoro, garanzie, sicurezze, assistenza, dignità.

È tutto così risaputo che non serve la moviola per capire che la retorica della generosa competizione, della passione che unisce perfino i nemici a contendersi un pallone, come ci ha mostrato quasi ogni prodotto cinematografico nostrano da Mediterraneo in poi, dello sport che riscatta dall’emarginazione, appartengono a un immaginario superato da altri cimenti e altre gare, quelle del mercato nel quale hanno fatto irruzione nuovi soggetti intenzionati a occuparlo con mezzi e pubblici inimmaginabili nel contesto europeo.

Basta pensare agli interessi che si muovono intorno ai Mondiali del 2022 che si svolgeranno in Qatar, tra multinazionali delle costruzioni, 6 nuovi stadi e l’ampliamento di uno esistente, hotel  e centri commerciali, potenziamento della rete di trasporti, major in lizza per i diritti televisivi, agenzie addette alla sicurezza, imprese del digitale per rafforzare l’offerta dello spettacolo che pare sia costato più di 7000 morti accertati,   legati alla costruzione degli impianti con una media di 12 morti alla settimana a partire dal 2010, che provengono per la maggior parte da nazioni povere quali Nepal, Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka, dove i lavoratori vengono privati del passaporto per ridurli in condizione di schiavitù.

Che fanno sospettare che non risponda a esigenze “morali” la decisione ventilata da alcuni paesi di boicottare per motivi umanitari il grande evento: ormai il Qatar è un attore protagonista che ha battuto la concorrenza comprandosi squadre, condizionandone altre con generose sponsorizzazioni, finanziando al realizzazione di impianti, proprio come si è infiltrato in altri settori strategici acquisendo a prezzi scontati porzioni di città europee poco attente all’etica dei beni comuni, malgrado la denominazione di Capitali morali.

Intanto a dimostrare che la piramide del calcio è una esclusiva delle dinastie dei Ramses mentre i tifosi sono retrocessi a nubiani utili a tirar su piramidi cui è concessa la partita di calcetto in parrocchia, o,  se possono permetterselo, l’abbonamento a Sky, la Superlega ha cancellato  la qualificazione sul campo — e dunque il fondamentale concetto di merito — come requisito di partecipazione per tutti e eliminando preliminarmente, come segnala Repubblica, “l’Atalanta, per dire dell’esempio più vicino (due qualificazioni consecutive alla fase a eliminazione diretta della Champions), ma anche Roma, Lazio, Napoli. Oppure Ajax, Porto, Marsiglia, Psv, Benfica: tutti club che la coppa con le grandi orecchie l’hanno vinta, alcuni più volte”.  

Mica vi stupirete, non sappiamo se tra le quattro pareti Draghi faccia il tifo per una squadra, certo è che i padroni del calcio fanno il tifo per la sua distruzione creativa, per la soluzione finale che esclude i piccoli in favore dei grossi, che tiene il capitale umano che fa profitto e  espelle col cartellino rosso chi non rende.