Licia Satirico per il Simplicissimus

Un Giorgio Napolitano particolarmente emotivo ha inaugurato la Scuola di magistratura di Scandicci. Ai magistrati appena immessi in ruolo il Capo dello Stato ha offerto in dono il volume “Sulla giustizia”, edito dal Poligrafico dello Stato, che contiene i suoi interventi dal 2006 al 2012 e due elementi irrituali: la dedica a Loris D’Ambrosio, stroncato da un arresto cardiaco lo scorso 26 luglio, e la pubblicazione di un carteggio tra Napolitano e lo stesso D’Ambrosio in merito alla trattativa Stato-mafia. Quelle che si scambiano il presidente della Repubblica e il suo consigliere giuridico sono parole pesanti come pietre. D’Ambrosio scrive di non aver mai esercitato pressioni che potessero tendere a favorire Mancino o altri rappresentanti dello Stato implicati nei processi di Palermo, Caltanissetta e Firenze. Napolitano replica: «l’affetto e la stima che le ho dimostrato in questi anni, sempre accresciutisi sulla base dell’esperienza del rapporto con lei, restano intangibili, neppure sfiorati dai tentativi di colpire lei per colpire me».

Si può discutere, e parecchio, dell’opportunità di rendere pubblico questo epistolario assolutorio (e accusatorio) mentre ancora la Corte costituzionale deve decidere sul conflitto di attribuzioni tra Napolitano e la procura di Palermo. Ma la cosa che più turba sono le parole pronunciate dal presidente della Repubblica a Scandicci: qualcuno avrebbe tentato di mescolare maliziosamente la richiesta di conflitto di attribuzione con il travagliato percorso delle indagini giudiziarie, «insinuando nel modo più gratuito il sospetto di interferenze da parte della presidenza della Repubblica».
Di questo presidente crepuscolare in edizione epistolare, ossessionato da una morte a suo dire causata da “escogitazioni ingiuriose”, si possono dare due interpretazioni del tutto opposte. Nella migliore delle ipotesi, Napolitano è come l’ispettore Clouseau alla ricerca del colpevole: chi ha mescolato alle polemiche sulla trattativa Stato-mafia un conflitto di attribuzione dal quale potrebbe dipendere l’ampiezza dell’immunità del prossimo presidente della Repubblica? Chi ha insinuato che D’Ambrosio sia stato ucciso da una campagna “violenta e irresponsabile”, gettando un’ombra sinistra sull’indagine dei magistrati palermitani? Chi sta trasformando quotidianamente il processo sulla trattativa Stato-mafia in una querelle sul materiale probatorio utilizzabile, tra una bacchettata ai magistrati “incontinenti” e inviti incoerenti alla ricerca della verità sulle stragi di mafia?

La seconda interpretazione è assai meno benevola, specie dopo aver letto le parole aspre del ministro Severino su chi usa la toga per arrivare alla “ribalta mediatica”, pronunciate sempre a Scandicci nel corso della medesima occasione. L’educazione sentimentale dei giovani magistrati è stata avviata: silenziosi e obbedienti, non dovranno esporsi troppo né indagare eccessivamente – nemmeno in via occasionale – sui vertici dello Stato. Nel nostro Paese la parola “conflitto” (di attribuzione, di poteri, di interessi) ha destini infelici, come infelice è il destino dei morti che continuano a vivere per ragioni istituzionali. Sull’epistolario tagliente grava l’aura di una fine evitabile, iniqua, addirittura violenta: D’Ambrosio è diventato lo spettro di Banquo della trattativa Stato-mafia, che aleggia su Napolitano per difenderne il prestigio e occultare ciò che crea imbarazzo.

Tante cose non ci convincono: la pubblicazione intempestiva di un carteggio privato, l’esistenza di un complotto contro il capo dello Stato per destabilizzare un Paese già distrutto dai postumi professorali del berlusconismo, la latitanza di una verità autenticamente condivisa sulla trattativa Stato-mafia. Ma Napolitano ha ragione a rimpiangere D’Ambrosio: chiunque lo stia guidando nell’invettiva finale contro le escogitazioni ingiuriose dei nemici delle istituzioni è davvero un cattivo consigliere.