Anna Lombroso per il Simplicissimus
È più facile morire per le masse che viverci a fianco. La battuta è attribuita a Trockij ma da Pericle in poi va bene per tutti, tiranni o democraticamente eletti, che una volta “assisi” preferiscono una vantaggiosa e appartata separatezza, uscendone a malincuore in fase pre-elettorale.
Eravamo abituati all’infastidito distacco di rappresentanti che non rappresentano o di nominati grazie a acrobazie più o meno spericolate. Assistevamo imperturbabili ormai alle evoluzioni dei trapezisti. Avevamo superato l’età della sorpresa per il paradosso, quando ci si stupiva del verificarsi di condizioni anomale contrarie alle aspettative. È che a forza di presentarsi in forma seriale certi fenomeni fuori dalla logica e dal comune sentire diventano normalità e come tali vengono accettati. E l’anomalia diventa la norma, la trasgressione tollerata diventa regola.
Ma ieri deve essere stato toccato il fondo, si è sconfinati nell’imperdonabile, si è precipitati nell’abisso dell’auto dissoluzione. Verrebbe da dire che forse bisogne essere grati al rissoso e mestamente spettacolare funerale del Pd: probabilmente ha assunto la forma di uno choc tale da spazzare via gli ultimi equivoci, rendendo palese l’inadeguatezza perfino a gestire quella strategia della digressione, della distrazione di iscritti, elettori e cittadini invitati a distogliere gli occhi dal disastro pubblico per schierarsi estemporaneamente sui temi della dignità e della rappresentanza, da sempre considerati optional marginali da mettere e togliere dall’agenda politica a seconda del vento. In attesa poi che torni l’eterno nemico quello che disgregando aggrega e fa da collante, aiuta a disegnare un identikit dei due antagonisti in campo, legittimandone la sopravvivenza in una inarrestabile liquefazione della democrazia.
Qualcuno l’ha chiamata eutanasia della sinistra, ma era la cattiva morte della politica: lo hanno ricordato i fantasmi apparsi al Simplicissimus, tutto cominciò con un partito sclerotizzato, incapace a farsi opposizione, remissivo rispetto alla teologia del mercato, inetto a crearsi una identità rispettosa della sua storia e proiettata nel domani, prigioniero di un incantesimo che combinava in un aberrante modello sociale e culturale ricerca dell’impunità, spregiudicatezza, esteriorità, rimozione di regole morali, illegalità, personalismo.
Nell’autobiografia della nazione, i tratti distintivi sono quelli del contagio del berlusconismo che trova terreno fertile, sostituendo alle virtù repubblicane i vizi pubblici, l’istinto all’autoconservazione a tutti i costi, al “fare cassa”, a capitalizzare un consenso clientelare, secondo i criteri di un’antipolitica che impiega con pienezza la politica per legittimarsi, per mascherarsi da arte di governo, mutando la rappresentanza in rappresentazione mediatica. Anche grazie alla latitanza della critica, all’evaporare dell’opposizione di un partito che ha fatto dell’auto-fondazione un misero auto-affondamento, come se l’assertività di una indipendenza potesse cancellare il nemico in casa, come se la presa in prestito dei voti conservatori assicurasse un’interminabile egemonia, come se svuotare un organismo dei contenuti della sinistra garantisse plebiscitario e irriducibile consenso.
E infatti il nemico in casa c’è rimasto, mentre è finita la democrazia cui è stato imposto di cedere alla pressione del mercato, è finita la sovranità in economia dello Stato grazie alla dissipazione di denaro pubblico e di beni comuni, sono finite le garanzie costituzionali, che la Carta è intoccabile per le unioni di fatto ma si può manomettere violentemente sul fronte dei diritti o dell’inserimento lestofante di misure democraticamente inaccettabili, è finito il lavoro per lasciar spazio alla precarietà per masse da movimentare come pedine sullo scenario del profitto e della rapacità.
Quel partito liquido, nella melma di idee prese in affitto dalla cassetta degli attrezzi neo-liberisti, nella gelatina di una modernità costruita sulle rovine della speranza di un riscatto di deboli e diseredati, ha rotto quel che restava del cordone ombelicale che nella sua e nella nostra storia aveva dato ossigeno alle democrazie. Ha rinunciato in nome della sua sopravvivenza a tradurre e riprodurre dentro all’arena istituzionale del campo politico bisogni, umori, interessi, passioni e sentimenti che si agitavano nella società. Dando luogo a una “cerchia” privilegiata e separata sostituendo a rapporti di mandato “verticali”, tra rappresentanti e rappresentati, i vincoli orizzontali tra appartenenti al ceto dirigente tra loro, nell’ambito di coalizioni e alleanze opache di governo, orientati alla solidarietà di ruolo e a conformità funzionali. All’interno muovendosi a fatica nel terreno scivoloso delle regole, delle burocrazie e delle gerarchie preferite alla responsabilità che vengono da un mandato di rappresentanza, all’esterno con un sequestro di facoltà decisionali esercitate senza ascolto di militanti, elettori e cittadini, si parli di Tav, di referendum, di questioni etiche, che altro non sono che un altro aspetto, il più sensibile, della cittadinanza negata.
Ieri è stata segnata la fine di una illusione, fittizia come quella di una certa finanza allegra e creativa: che in un unico organismo politico si potessero incorporare i due poli dell’antitesi “laicismo-confessionalismo”, puntando su un futuro nel quale potessero convivere e conciliare le differenze con pari libertà e pari dignità. Ma è anche finito l’incubo per molti di dover convivere per forza con un’anima bigotta, conservatrice, ipocrita e repressiva. Meglio arrendersi all’evidenza e trovarsi a lavorare intorno a “altro” a un soggetto più rispettoso e equo di inclinazioni, aspettative, differenze. E mica vale solo per le unioni omosessuali: bisogna riprendersi le conquiste del lavoro, che è il modo più politico di fare della fatica il “lavoro” con i suoi valori e i suoi diritti, bisogna riprendersi il diritto di critica, che altrove viene esercitato con forza appassionata e a tutti i costi per restare vivi e cittadini. Tante volte la comunità dei credenti è stata invitata a prendere le distanze da gerarchie lontane e ostili alle speranze e al sentimento dai fedeli. È il momento che la comunità dei credenti in certe stelle polari che guidano all’affrancamento dallo sfruttamento e dalla violenza del mercato, esercitino la loro opposizione ferma e decisa da un ceto che perpetua anche al suo interno come tutte le sfere sociali le disuguaglianze tra cittadini.
La cosa che lascia senza parole è che, malgrado tutto questo, la maggioranza degli elettori cosiddetti di sinistra voterranno PD inventandosi una questione di coscienza come “fare muro contro il ritorno del Berlusca” oppure “non è il momento di dividere la sinistra” ed altre menate del genere mandando a quel paese per l’ennesima volta il programma. Un pò come quelli che, pur strozzati dalla crisi dovuta a 15 anni di malgoverno berlusconiano, voteranno ancora per il Cavaliere convinti che solo l’uomo della provvidenza li puo’ salvare (ancora!). Sinceramente sono sempre piu’ schifato dal modo di pensare di questo popolo che mi sa sempre piu’ di masse bovine. Ricordo ancora un signore di 50 di Napoli che, quando il Berlusca promise un milione di posti di lavoro, disse al tg2 che lui aveva votato Berlusconi e che ora attendeva una lettera dal Cavaliere in cui questi gli comunicava che gli dava un lavoro. E i lampedusani che applaudivano il Berlusca quando questi, all’indomani dell’arrivo di tunisini alla ricerca dell’eldorado, arrivò sull’isola promettendo di tutto persino di fare un mega campo da golf su Lampedusa, dimenticando che l’isola è una pietraia e che l’era non vi cresce solo perchè lo vuole lui!
Io invidio mio nonno partigiano: ha visto l’orrore della guerra, ha visto morte e distruzione, la fame, ha dovuto lottare ma, porca miseria, lui e i suoi compagni presero atto che il fascismo aveva abbindolato il popolo e da allora mai sono ricaduti nell’ errore di credere in un nuovo uomo della provvidenza: Non credettero a Craxi e ancora meno a Berlusconi. Quelli della mia generazione, invece, tutto il contrario. Forse aveva ragione Monicelli: se il popolo non capisce che vada tutto in malora, vuol dire che se lo meritano!
Le mani alzate possono votare, ma poi occorre lavorare; le mani alzate possono pregare, ma poi occorre impegnarsi. Le mano alzate possono applaudire, ma prima bisogna ricominciare a pensare, a confrontarsi con le idee e con la storia di chi per le idee ha dato fino alla vita, ma l’aveva spesa in gran parte per la giustizia.
Questa melma non si sopporta più; ormai ne appaiono lordi e fatti irriconoscibili perfino i credenti. Basta.