E’ inevitabile che le catastrofi trascinino con sé una complessa narrazione che man mano si distacca dalla realtà perché è la cosa più difficile da affrontare. Ma non mi interessa tanto la mitopietica nata sulle ceneri del terremoto emiliano che va dalle tecniche di fraking alle previsioni dei Maya, trascurando colpevolmente Nostradamus forse perché le sue profezie non stanno dentro le 140 battute di Twitter. Mi interessa invece la deformazione degli eventi che man mano prende piede e si impone sull’evidenza, dando origine a una verità artificiosa, talmente controfattuale che finisce per strappare il velo di Maya sulla vera realtà che palpita sotto l’apparenza della buona società.
Secondo il fresco presidente di Confindustria, Squinzi, il quale ha evidentemente fatto scrupolosi e capillari controlli personali sui capannoni, il sospetto che quelli devastati fossero costruiti al risparmio è frutto di “polemiche artificiose”: quegli impianti “erano assolutamente regolari”. In effetti lo erano: è del tutto regolare per l’imprenditoria italiana cercare competitività risparmiando sulle strutture e fottendosene dei rischi che possono correre i dipendenti. Questo ovviamente si applica non solo al caso del terremoto, la strage di operai a cui abbiamo assistito è solo un caso particolare delle morti sul lavoro che costellano le cronache. Nè vale l’argomento che anche alcuni imprenditori sono rimasti sotto le macerie anzi è un rafforzativo: l’imperativo del profitto è talmente assoluto che si trascura anche la sicurezza personale, figurarsi quella degli altri.
La cosa che semmai colpisce è questo sia avvenuto anche in una delle poche aree del Paese con una produzione avanzata dove forse qualche soldino in più si sarebbe potuto metterlo senza grandi sofferenze. Ma purtroppo gli operai ai soldini ci devono pensare ed è anche per questo, oltre alla cultura del lavoro e della fabbrica che le alcune fabbriche hanno riaperto anche in condizioni precarie di strutture con la terra che ancora tremava: il ricatto del lavoro in tempo di crisi e con un welfare in via di smantellamento è parallelo all’imperativo del profitto. Ecco perché non tengo oggetti pesanti vicino alla televisione, per evitare gesti inconsulti quando sento ben pasciuti giornalisti domandare e domandarsi come mai i capannoni siano stati riaperti in quelle condizioni.
L’imbelle governo che rifiuta gli aiuti europei per fa bella figura con gli amici euroburocrati e che non trova di meglio che un rialzo delle accise per far fronte alla catastrofe emiliana, è alla radice della seconda messa in mora della realtà. Essendo prigioniero della delirante politica del taglio del debito a tutti costi, fosse anche il costo della diminuzione della ricchezza prodotta, vuole spendere il meno possibile e così comincia la farsa della sottovalutazione dei danni, la quale sarà ampiamente sostenuta dai media “amici”: ora chi dice due miliardi, chi cinque come stima provvisoria dei crolli. Ma è del tutto ovvio che si tratta di cifre priva di qualsiasi senso: un intero sistema produttivo è stato messo in ginocchio e sarà per mesi in mezzo al guado. Altro che due o cinque miliardi miliardi: la zona colpita realizza l’1% del pil italiano, ma in realtà costituisce il 6% e passa del nostro prodotto manifatturiero. I danni per il Paese nel suo complesso sono fa dieci a venti volte le cifre citate. Ben che vada.
Però confessare questa realtà significherebbe riconoscere gli errori compiuti, mettere in crisi il quadro concettuale dentro il quale e per il quale sono stati compiuti, ammettere il fallimento di una classe dirigente politica e non. Perciò i danni saranno solo quelli che ci si potrà permettere di non pagare o di supportare con qualche tampone: nemmeno c’è il coraggio di chiedere alle banche di non chiedere commissioni sulle donazioni ai terremotati. Ci accontenteremo dei due centesimi della benzina. Che non serve proprio a niente se il motore è spento e gli autisti senza patente.
l’articolo 1 della costituzione italiana recita che la nostra è un repubblica fondata sul lavoro. Non precisa esattamente come sia da intendersi la parola “lavoro” ed allora ogni precisazione è all’uopo. Lavoro di giorno, di notte, lavoro precario, stagionale, lavoro in fabbrica, lavoro intellettuale, lavoro sempre, lavoro di alcuni, e si potrebbe andare al prossimno inverno prolungando l’ elenco.. La parola lavoro diventa un iperonimo comprendendo anche ” morte da lavoro, morti bianche da lavoro per l’ appunto. La costituzione non dà un significato etico al lavoro non spiega che il lavoro dovrebbe essere liberante e non cogente per chi lo pratica, non dice che il lavoro non deve essere un mezzo per ingrassare alcuni e sfruttare altri. Cisì non fa meraviglia che nelle zone terremotate si sia ritornati alle fabbriche anzitempo, in buona parte per libera scelta, altri ” invitati” per la mala associazione lavoro- profitto. Ma profitto di chi? di chi è rimasto sotto le macerie, vittima inconscia di un sistema tritatutto e spegne i suoi poveri figli con una logica aberrante del dover fare a tutti i costi.. Pochi , però, hanno pagato con la vita e interpretando parossisticamente il giudizio di parte del presidente della confindustria i capannoni costruti a regola d’ arte(medievale) sono crollati per colpa loro . Delirio!!!