Anna Lombroso per il Simplicissimus

Lo ricordavo a me stessa qualche giorno fa che l’Italia, con solerzia superiore perfino alla Germania, che non potè ancora partecipare nel 1991 alla guerra contro l’Iraq nel ’91, ha rimosso la ritrosia alla soluzione armata del secondo dopoguerra per partecipare entusiasticamente a tutte le principali missioni militari, dell’ultimo quindicennio abbondante: Iraq, Somalia, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Afghanistan, ancora Iraq, Libano. E per conciliare, potremmo dire pacificare, questo febbrile attivismo bellico con il mantenimento del rifiuto verbale della guerra ha appunto adottato quel repertorio di espedienti strategici, istituzionali e semantico-discorsivi già impiegati negli altri Paesi, per perseguire interessi miopi e altrettanto miopi e arruffate alleanze, per restare in sella del recalcitrante cavallo di una crescita “illimitata” e di una corsa all’accumulazione e al profitto. Accreditando la finzione occidentale di una partecipazione alla guerra per esportare non solo la pace, non solo la poco commerciabile democrazia, ma l’opinabile e fragile benessere, quello che avremmo voluto rappresentasse la legittimazione etica del capitalismo, se non addirittura la dimostrazione scientifica della possibilità di “buscar” l’Oriente attraverso l’Occidente insomma di giungere (e distribuire) la virtù attraverso il vizio.
Amartya Sen proprio in Italia non molto tempo fa ammoniva: “La prossima guerra economica sarà sui prezzi alimentari, sul pane e il riso, sulle penurie”.
E infatti la visione demiurgica di un capitalismo che non ha saputo essere ben temperato si dissolve davanti alla sua impossibilità di rompere la spirale della storia che ruota intorno al perenne avvitarsi intorno all’intollerabile ineguaglianza, insopportabile per chi si trova dalla parte sbagliata una parte che geograficamente e moralmente si estende sempre di più. Dimostrando che è impossibile consolidare la libertà dei più forti limitando quella dei meno forti, se si è incuranti che la schiavitù finora sapientemente distribuita e mediaticamente occultata sta per diffondersi secondo nuove terribili e inattese regole distributive.
E infatti finisce che importiamo modalità e sperimentazioni di dignità e democrazia da inaspettati maestri, in un’asse simbolica che mi piace guardare dal davanzale frustrato della mia appartenenza la mondo. La gente del Cairo, l’esercito che si “consegna” allegoricamente, la protesta per il pane che assume il senso e la volontà di un’azione per abbattere un regime, voglio vederli in un unico contesto globale insieme agli operai in piazza ieri e agli studenti che reclamano futuro e alle donne offese e agli uomini ingiuriati di questo nostro Paese che il bisogno non ha ancora affrancato dalla servitù morale, ma che presto provvederà temo a svegliare bruscamente.
Ci sono circostanze, particolari, immagini che colpiscono come dei bei cazzotti e condannano felicemente a non subire le offese alla dignità e alla livertà. Ieri, un giorno dopo il salvataggio del killer di Pompei e della nostra bellezza nazionale, i cittadini del Cairo hanno creato un cordone sanitario intorno al loro Museo. Un uomo grosso e energico, piangendo con una bellissima impudicizia gridava: siamo egiziani, è il nostro museo, contiene la nostra storia e la nostra bellezza e lo difendiamo.
Si abbiamo proprio da imparare da questa dignità d’Egitto.